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Shelley Duvall, “Shining” e quella rivalità fra Kubrick e Stephen King

L'attrice musa di Altman è scomparsa l'11 luglio. Sul set del film "horror" sottoposta a fortissimo stress

Giuseppe SacchibyGiuseppe Sacchi
Shelley Duvall, “Shining” e quella rivalità fra Kubrick e Stephen King

Shelley Duvall in Shining (1980) di Stanley Kubrick ANSA/ UFFICIO STAMPA

Time: 4 mins read

“Sono veramente molto addolorato per la morte di Shelley Duvall, attrice meravigliosa, piena di talento e sottoutilizzata”: così Stephen King ha commentato la scomparsa dell’indimenticabile Wendy Torrance nel film Shining di Stanley Kubrick, tratto dall’omonimo libro dello scrittore “maestro dell’horror”.

Sincero saluto ad una bravissima attrice – purtroppo per molto tempo sottostimata ad Hollywood – o occasione per lo scrittore di rinfocolare, con quel “sottoutilizzata”, l’eterna diatriba tra King e Kubrick, a partire dal 1980, anno di uscita del film, sulla trasposizione cinematografica di contenuto e personaggi del suo lavoro letterario? Non dimentichiamo, infatti che sul set del film i rapporti tra il regista e l’attrice furono tutt’altro che rosei, con Kubrick che una volta la definì “uno spreco di tempo”, le dava la colpa per ogni ritardo nella lavorazione anche se la sottoponeva a ritmi non certo idilliaci.

Il tweet di Stephen King sulla morte di Shelley Duvall, attrice “sottoutilizzata”

Un esempio dello stress a cui Kubrick la obbligava? In un’intervista al critico Rogert Ebert, riguardo alla famosa scena della porta dietro cui, alla fine, c’è Jack Nicholson armato di coltello che vuole ucciderla, l’attrice confessò: “L’abbiamo filmata per circa tre settimane. Ogni giorno. È stato molto difficile. Jack era così bravo, ma anche così dannatamente spaventoso che mentre giravamo pensavo a quante donne attraversavano questo genere di cose. Ci sono voluti tre giorni interi solo per la scena della porta distrutta. Nel mio personaggio ho dovuto piangere 12 ore al giorno, tutto il giorno, negli ultimi nove mesi di fila, cinque o sei giorni alla settimana”.

Il sito Cinematographe.it ricorda che Kubrick, alla ricerca della perfezione, costrinse Shelley Duvall ad interpretare una stessa scena per ben 124 volte (ed erano scene da “abuso psicologico” che si portavano dietro un forte carico di ansia e tensione che – teniamolo ben presente – l’attrice doveva incanalare e riproporre ad ogni nuovo ciak).

La lavorazione del film lasciò lunghi strascichi su Shelley Duvall che, a metà degli anni ’90, decise di ritirarsi dalle scene e scomparire. Solo anni più tardi, nel 2016, decise di riapparire in televisione, prendendo parte a un episodio della nota trasmissione Dr. Phil, dove ammise di soffrire di una malattia mentale.

Durante un’intervista del 2021 con The Hollywood Reporter, Duvall non apparve sempre molto presente a sé stessa: raccontò, ad esempio, che Robin Williams era ancora vivo – quando invece si era suicidato nel 2014.

Shelley Duvall in Shining (1980) di Stanley Kubrick.
ANSA/ UFFICIO STAMPA

Ma com’era nata la rivalità, il rancore tra Kubrick e King? All’inizio delle riprese del film, lo scrittore, che aveva già pubblicato il libro, provò a scrivere anche una sceneggiatura adatta per il film; tuttavia, secondo David Hughes, biografo di King, il regista si rifiutò categoricamente di leggere lo script, spinto dai pregiudizi che provava per lo scrittore del Maine: pare infatti che Kubrick fosse convinto che Stephen King non fosse altro che “uno scrittore da quattro soldi”, buono solo per ammansire le masse e che, dunque, non fosse in grado di scrivere una sceneggiatura valida.

C’è da aggiungere poi che per qualsiasi suo film, Kubrick è sempre stato famoso anche per il suo modus operandi di super-controllore, “senza scocciatori”: pertanto non sorprende più di tanto il fatto che anche per Shining il regista volesse avere il potere assoluto, senza avere tra i piedi le richieste di uno scrittore che avrebbe potuto protestare per ogni minimo cambiamento.

Appena il film uscì nelle sale, Stephen King si disse immediatamente “deluso” dalla pellicola perché, secondo lui, snaturava sia la storia sia i personaggi e inoltre criticò Kubrick per aver utilizzato Jack Nicholson – nel ruolo di Jack Torrance – che  aveva già interpretato un pazzo nel film, di pochi anni prima, One Flew Over The Cuckoo’s Nest-Qualcuno volò sul nido del cuculo. King commentò: “Dov’è la tragedia, se il tipo si presenta ad un colloquio di lavoro ed è già fuori di testa?”

Se invece il “sottoutilizzata” menzionato da Stephen King nel suo addio a Shelley Duvall si riferisce al poco apprezzamento ed impiego di Hollywood nei suoi confronti, non si può essere del tutto d’accordo, visto che Shelley Duvall non è stata solo la Wendy di Shining. Una considerazione su tutte: è stata la musa del grande regista Robert Altman. Anche se l’inizio è stato per caso.

Shelley Duvall nel 1977 /Wikipedia

Shelley, ex universitaria fuori corso, dipingeva ma i soldi erano scarsi. Un giorni lei e il suo giovanissimo, unico marito, Bernard Sampson decidono di organizzare una festa per cercare di vendere almeno uno dei quadri di lei: a quella festa partecipano anche dei membri della troupe che sta lavorando con Robert Altman ad Anche gli uccelli uccidono: rimangono colpiti dalla sua personalità, dal suo modo di porsi davanti alle cose e telefonano al regista per organizzare al più presto un provino. Duvall ha talmente bisogno di soldi che accetta di partecipare alla cosa anche se non ha idea di chi sia Altman ed è convinta che quegli uomini vogliano farle girare un porno!

Anche gli uccelli uccidono è il principio di una collaborazione artistica che farà la storia della Nuova Hollywood e convince Shelley Duvall a fare quello che non ha mai più fatto in tutto il resto della sua vita: lasciare il Texas e andare a vivere nella Mecca del cinema.

Presto diventa un’attrice che tutti vogliono invitare ai loro party. Con Altman fa I compari, Gang, Nashville, Buffalo Bill e gli indiani, diventa uno dei volti e dei corpi del New American Cinema: le riesce con la sigaretta quello che a Clint Eastwood riesce con il cappello, cioè recitare attraverso un oggetto con una naturalezza e maestria tale che viene ribattezzata “the queen of cigarette acting”. Il suo capolavoro di attrice arriva con Tre donne (1977, sempre di Altman), nel quale interpreta magistralmente Millie Lammoreaux, una delle tre donne, di età diverse, tre generazioni, che decidono di rifiutare gli uomini per vivere e costruire insieme una specie di famiglia in un rapporto figlia-madre-nonna. Shelley Duvall viene premiata come Migliore attrice femminile al Festival di Cannes.

Anche se di lei ad Hollywood non si è mai parlato molto (gelosie?) il suo talento non è stato apprezzato solo da Altman: è stata diretta da tanti altri registi di valore, fra cui Tim Burton (Frankenweenie, 1984), Fred Schipisi (Roxanne, 1987), Steven Soderbergh (Underneath-Torbide ossessioni, 1995), Jane Champion (The Portrait of a Lady-Ritratto di una donna, 1996). Infine, Scott Goldberg (The Forest Hills, 2023 e suo ultimo lavoro). Grazie Shelley Duvall.

 

 

 

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Giuseppe Sacchi

Giuseppe Sacchi

Sono marchigiano, ma non esattore delle tasse. Amo il cinema e le persone, perché le loro vite sono film di vario genere, dal comico al thriller. Ho vissuto a New York 16 anni lavorando per "America Oggi", "Paese Sera", riviste Moda e King. In Rai ho condotto per 7 anni il programma "La Notte dei Misteri" e poi il giornale radio notturno. L'età non è quella della carta di identità ma quella che volete darmi.

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