La guerra al nazifascismo attraverso gli occhi di una ragazzina dodicenne diventata adulta per necessità: questo è Flora, il docufilm di Martina De Polo (Shuluq, vento di mezzogiorno, 2018, internazionalmente pluripremiato) che offre una memoria storica di cui bisognerebbe far tesoro, specie oggi, Anniversario della Liberazione, e ancor più in questi difficili tempi nei quali, causa anche una forte crisi economica, la destra estremista ha rialzato la testa e minaccia diversi valori democratici in vari Paesi del mondo, non solo dell’Europa.
Quella di Flora è una storia di lotta, sofferenza e rinascita: è la storia delle radici del nostro Paese.
Scritto dalla regista assieme ad Alex Scorza, è il racconto in prima persona di Flora Monti, una tra le più giovani staffette partigiane della Resistenza Italiana che, a soli 12 anni (oggi ne ha 94), decide di schierarsi contro il nazifascismo e consegnare segretamente messaggi alle varie cellule della Resistenza sparse nella zona dell’Appennino tosco-emiliano, correndo consapevolmente un grosso rischio: se i tedeschi l’avessero scoperta neanche l’età le avrebbe evitato la tortura o una possibile fucilazione.
Una volta ha trasportato nello zaino un piccolo arsenale di bombe a mano: non le avevano detto cosa c’era, solo di stare attenta a non cadere, niente di più, e lei aveva capito che doveva stare davvero, molto, attenta. Non ha mai letto neanche un bigliettino – era la regola – per non aver niente da dire se l’avessero mai scoperta i tedeschi.
Il docufilm ci racconta la Storia vista con gli occhi di una bimba, anni di sofferenza e di terrore ma soprattutto di speranza, di determinazione e libertà. Una narrazione di vita vissuta della quale Flora ricorda anche i minimi particolari, e non fa sconti quando parla della collaborazione tra fascisti e nazisti: è da brividi la descrizione del momento in cui viene fermata e, dodicenne, lasciata con la sola maglietta e mutandine per perquisirla.
Nel 1944 gli americani salvano Flora e la sua famiglia dalle rappresaglie naziste e per lei è una nuova avventura che la porta, da sfollata, a Cinecittà, allora il più grande campo profughi d’Italia (smantellato solo nel 1950).
Il docufilm lascia il segno nello spettatore anche per la varietà di soluzioni impiegate da Martina De Polo, utilizzando diversi registri stilistici, nel rievocare la vicenda di Flora: le interviste alla vera protagonista ci mostrano alle sue spalle immagini di ieri ma anche di oggi, come i profughi della rotta balcanica, gli sbarchi nel Mediterraneo, la lotta delle guerriglie del Rojava (nel nordest della Siria), come a delineare un parallelismo tra passato e presente.
Abbiamo poi la ricostruzione in studio e in esterni, dove la piccola Flora è interpretata da Deina Palmas e sono presenti anche le maschere della commedia dell’arte (in collaborazione con l’associazione Fraternal Compagnia): rappresentano il ricordo della bambina che ora è anziana, e per questo il loro volto non è chiaro ma viene deformato dalla memoria. La regista ricorre inoltre in modo simbolico, ma efficace, al videomapping (con materiali di repertorio forniti dell’UNICEF) e alle “magiche proiezioni” sui corpi degli attori: nel nero dominante sbocciano improvvisamente fiori rossi che simboleggiano il ritorno alla vita (come quando i disertori si uniscono alla Resistenza).
Ad arricchire il tutto c’è anche l’apporto musicale di Vinicio Capossela che ha regalato alla produzione il suo brano Staffetta in bicicletta (una delle sue Tredici canzoni urgenti): il testo celebra il ruolo fondamentale delle donne nella Liberazione e il valore di ogni più piccolo gesto nella lotta al male.
Flora è al contempo un docufilm avvertimento e testimonianza per tutte le generazioni, passate e presenti. È un’occasione per riflettere su quanto e cosa siamo disposti a perdere, e per quale valore. È un richiamo alla diffusa indifferenza attuale nei confronti di un passato che potrebbe riproporsi, magari sotto altre forme esteriori. Serva a tutti il grido d’allarme di Flora Monti al termine del film: “La gente, i giovani – dice – non si interessa più di quel periodo storico: se il popolo non sta attento, non si anima, non si dà da fare affinché quei tempi non ritornino, secondo me torneranno”.
Ne abbiamo parlato con la regista Martina De Polo.
Qual è stato l’input che l’ha spinta a fare questo docufilm: la situazione politica internazionale, il fatto che certe figure, vedi le donne, non sono spesso al centro di tante storie della Resistenza, altro?
“Alex Scorza, co-autore, montatore, produttore mi ha sottoposto la e ho subito pensato che fosse una storia importante per i motivi che ha appena accennato ma anche perché era la storia di una donna che aveva fatto la Resistenza e perché spesso la Resistenza viene sempre declinata al maschile. Ad attrarmi era anche il fatto che lei era ben consapevole di mettere a rischio la sua vita, quotidianamente, e non ha mai avuto nessun tipo di dubbio su da che parte stare: ho pensato che la storia di Flora potesse aiutarmi a raccontare un punto di vista diverso da quello della storiografia classica. Mi interessava anche il presentare la storia di una bambina che era una di quella moltitudine di figure che non sono quasi mai state raccontate”.
Flora ha una sua valenza particolare in questo delicato momento storico, non legato solo al 25 aprile…
“Il mio film è importante in questo periodo perché, per quanto mi riguarda, vedo con preoccupazione la piega politica che sta prendendo il mondo occidentale verso un estremismo di destra e quindi credo che sia importante far riflettere sulla figura di Flora. La storia degli ultimi decenni ci ha insegnato che spesso la gente dimentica la storia passata, ha meno voglia di fermarsi a riflettere su di essa. Ho pensato che il nostro ruolo, come registi, autori, ma anche come semplici esseri umani è quello di cercare di dare un piccolo contributo affinché tutto ciò non venga dimenticato”.
Nella seconda parte del suo lavoro c’è il trasbordo nel centro profughi di Cinecittà: al di là della rappresentazione di una realtà storica, cosa la stuzzicava di questa parte della storia di Flora Monti?
“È stato il fatto che del centro profughi di Cinecittà non ci sono molte documentazioni scritte, per cui volevamo contribuire a capire meglio quella realtà storica: alla fine ci è stato di molto aiuto uno studio straniero e così abbiamo potuto capire meglio l’ampiezza di quel fenomeno, e come era strutturato”.

Perché ha scelto di utilizzare diversi registri scenici per il docufilm?
“Tutte le scelte che abbiamo fatto, come anche il coraggioso utilizzo di linguaggi comunicativi diversi, sono state fatte perché volevamo invogliare a vedere il film soprattutto un pubblico giovanile. Come raggiungere l’obiettivo? Abbiamo ritenuto che il mezzo migliore fosse attraverso l’utilizzo di una ibridazione di generi e allora abbiamo dato spazio anche alla sperimentazione. Abbiamo pensato e creato Flora soprattutto per le nuove generazioni: non a caso Daina Palmas, la protagonista che interpreta Flora da bambina, è l’unica attrice che si vede in volto dall’inizio alla fine del film. Ci sono argomenti, valori, come anche la Resistenza, che stanno interessando sempre meno le fasce dei più giovani e noi abbiamo allora cercato di coprire questo vuoto utilizzando degli stili diversi più vicini al loro mondo”.
Com’è nato l’incontro e il dono di Vinicio Capossela?
“Ci è capitato di incontrare un suo importante collaboratore, Luca Bernini, e gli abbiamo parlato del progetto a cui stavamo lavorando ma del quale ci mancava la canzone di chiusura: lui ci ha consigliato di mandare una copia del film a Capossela. Fatto sta che è rimasto talmente entusiasta che ha subito deciso di farci quel grande regalo che è Staffetta in bicicletta”.
Flora dovrebbe circolare in tutte le scuole, di ordine e grado…
“Speriamo che dal prossimo anno scolastico possa entrare in molte scuole italiane. Ci stiamo lavorando affinché questo sia possibile in gran misura”.