Presentato con caloroso successo al Bif&st di Bari, in concorso nella sezione ItaliaFilmFest/Nuovo Cinema Italiano, il debutto alla regia dell’attore e comico Neri Marcoré: applausi a scena aperta durante la proiezione e un’ovazione alla fine nell’esaurito Teatro Piccinni.
La storia di Zamora ci riporta agli Anni ‘60. Walter Vismara (Alberto Paradossi, al suo primo film da protagonista) è un contabile di una fabbrichetta di Vigevano. È un ragazzone che cura ogni dettaglio e che vive ancora con i suoi genitori. La sua monotona, piccola vita viene sconvolta quando di punto in bianco il titolare (Antonio Catania) chiude bottega e il Vismara si ritrova a lavorare a Milano nella moderna azienda del dinamico cavaliere Amilcare Tosetto (Giovanni Storti), ossessionato dal calcio. L’imprenditore, infatti, ogni Primo Maggio organizza tra i suoi dipendenti, la sfida – a suo tempo un must – “scapoli contro ammogliati”. Gli allenamenti sono obbligatori, pena l’ammonimento o il licenziamento in caso di plurima recidiva. Walter odia il calcio, ma per disperazione sceglie di giocare in porta. Si rivela un vero e proprio colabrodo, esattamente l’opposto di Zamora come lo chiama sarcasticamente un collega riferendosi al formidabile portiere spagnolo degli anni ’30. Dopo una serie di vicissitudini amare, Walter escogita un piano del tutto originale per vendicarsi e ingaggia Giorgio Cavazzoni (Marcorè), un ex-grande portiere sprofondato nell’alcool.
Ispirato in gran parte all’omonimo romanzo d’esordio di Roberto Perrone (2002), scomparso lo scorso anno, Zamora (pur con qualche licenza direttoriale, come i genitori non presenti nel libro e lo spostamento temporale della vicenda più vicina al ’68) è un film incentrato sulla crescita di un bamboccione che non ha ancora vissuto alcune fasi dell’età adulta e deve ancora capire molte cose per arrivare ad una maturità sentimentale. Lo spostamento in avanti della temporalità della vicenda ha permesso alla sceneggiatura di proporci ricchi e riusciti personaggi femminili positivi e moderni.
Grazie alla bravura del direttore alla fotografia Duccio Cimatti, alla scenografia, ai costumi e ad una colonna sonora evocativa di quegli anni, il film è ben riuscito anche sotto il profilo estetico, oltre che attoriale.
La sceneggiatura è stata scritta a più mani: Marcorè ha lavorato insieme a Maurizio Careddu, Paola Mammini e Alessandro Rossi. L’opera è stata prodotta da Pepito Produzioni di Agostino Saccà con Rai Cinema e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte. L’ottimo cast prevede, oltre ai già sopra citati, anche Marta Gstini, Anna Ferraioli Ravel, Pia Lanciotti, Pia engleberth, Giacomo Porretti, Giovanni Esposito e Walter Leonardi.

Ecco quanto ci ha detto da Marcoré in conferenza stampa e in una telefonata privata. Come nasce Zamora?
“Era una storia che doveva diventare film da molto tempo. Il progetto, come spesso accade nel cinema, sembrava perso, ma non la mia voglia di riprenderlo e così l’ho proposto ad Agostino Saccà. Non pensavo di dirigerlo ma di darlo a un altro regista. Saccà invece ha detto che sarebbe stato felice di produrlo se lo avessi diretto io. Non c’è voluto molto per convincermi: era da parecchio tempo che sentivo il desiderio di cimentarmi come regista, ma non immaginavo di farlo proprio con Zamora”.
Giorgio Cavazzoni è l’epigone di una mascolinità educata: rappresenta una richiesta di tregua sociale tra uomo e donna?
“Sicuramente come tipologia umana, ma rappresenta soprattutto la necessità che ognuno cerchi di scoprire le proprie potenzialità per prendersi poi il proprio posto nella società. Nel film sono presenti diverse tipologie maschili, tutte degli anni Sessanta, e Giorgio, ex calciatore di successo, è uno che evidentemente ha anche respirato certi ambienti stimolanti e privilegiati della Milano del boom economico e sociale, dove c’erano meno miliardi di adesso ma più umanità, più garbo nei confronti delle donne e che vediamo applicato nel rispetto di Giorgio verso Elvira: è un rapporto consenziente di due adulti”.
Nel personaggio del portiere, al di là di quanto letto nel libro, c’è qualcosa che ti affascina particolarmente e l’hai trasferito nel film?
“Il portiere è quello che forse meglio riassume l’etica del calcio. Non perché è un eroe solitario in mezzo a due pali distanti, ma perché si prende la responsabilità di difendere quella porta, e quindi i compagni di squadra, e di organizzare la difesa: insomma, è il ruolo che forse più degli altri richiede carisma e anche un po’ di follia. Rappresenta l’eroe che può esaltarsi e salvare la squadra con parate miracolose, e quindi diventare un mito, ma anche quello che più facilmente può cadere nella disperazione, ed essere disprezzato, in seguito ad un errore. Insomma, il portiere è uno che ha il coraggio di prendersi responsabilità enormi e quindi è un personaggio interessante dal punto di vista narrativo”.