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Toni Cade Bambara, protagonista della comunità nera a New York negli anni 70

Attivista, documentarista, la sua scrittura è un insieme di dialetto, tradizioni orali e musica jazz

Michele CrescenzobyMichele Crescenzo
Toni Cade Bambara, protagonista della comunità nera a New York negli anni 70

Toni Cade Bambara, ritratto di Pia Tacconi

Time: 4 mins read

Luglio 1981, New York. La luce della lampada proietta una macchia gialla sulla scrivania e sul foglio bianco. Toni Cade Bambara si porta una mano alla testa, avvolge con il dito sinistro uno dei suoi lunghi dreadlock. Aggrotta le sopracciglia e ascolta la voce di sua figlia undicenne Karma Bene Bambara Smith che gioca con alcuni amici di scuola in un’altra stanza. Affina l’orecchio come se quel baccano potesse aiutarla a trovare le parole per scrivere l’introduzione all’ultima edizione di Gorilla, My Love, a dieci anni dall’uscita.

La sua amica Toni Morrison le ha suggerito di scrivere qualcosa su di lei, sul suo impegno politico a favore delle comunità afroamericane. Di quando, ad esempio, entrò a far parte della facoltà del City College e richiese un corso di nutrizione africana per far conoscere le radici afro in modo nuovo e alternativo. Oppure, quando all’età di sei anni, cambiò il suo nome da Miltona a Toni, e poi, nel 1970, aggiunse Bambara, il nome del gruppo etnico dell’Africa occidentale della sua bisnonna, scoperto per caso con una firma su un vecchio quadro trovato in cantina.

Toni Cade Bambara alza la luce della lampada e la proietta dall’altro lato della stanza. La luce gialla colpisce il certificato di laurea in letteratura inglese nel 1959 e alcuni dei suoi amatissimi dischi jazz. Sullo sfondo ci sono abiti teatrali di quando è stata direttrice di scena e costumista al Dance Club del Queens College. Accanto c’è tutta la documentazione di nuovo progetto cinematografico: un documentario dal titolo Oscar Micheauz and the Story of Race Movies.

Toni Cade Bambara / Wikipedia

La luce della lampada adesso illumina l’altra ala della casa, quella con la libreria che trabocca di saggi, libri scolastici, romanzi e faldoni pieni di appunti, idee e storie a metà. Non riesce a ricordarsi di un tempo in cui non scriveva. Quando era studentessa, a spingerla era il desiderio di fare cose che i programmi scolastici di letteratura non incoraggiavano a fare, cioè usare la scrittura come uno strumento per entrare in contatto con sé stessi. A scuola, per esempio, la scrittura sembrava avere l’unico scopo di copiare dai dizionari o dalle enciclopedie e prendere quanta più distanza possibile dalla propria voce. Tutto questo lo chiamavano “istruzione”, mentre lei lo chiamava “alienazione”. Dovevamo eliminare molto, distorcere molto, e mentire per far entrare l’esperienza emotiva, linguistica e culturale nella forma strutturata del componimento di inglese. Come disse in un intervista per l’antologia Sturdy Black Bridges: Visions of Black Women in Literature a spingerla a scrivere era stato il desiderio di dare spazio a quelle idee che non trovavano posto nello schema fisso del componimento di inglese, cercare di rendere giustizia a un punto di vista, a un senso di individualità.

Toni Cade Bambara scuote il capo. Basta pensare al passato. Deve concentrarsi sull’introduzione ai racconti di Gorilla, My Love scritti dieci anni fa. Sbuffa. Sarebbe più facile scrivere qualcosa sul suo più recente romanzo The Salt Eaters, vincitore dell’American Book Awards di quest’anno. Invece adesso deve mettere da parte quella storia di lotta per i diritti civili degli abitanti della piccola città di Claybourne, in Georgia. Deve dimenticare sia Velma Henry, un’attivista che ha tentato il suicidio, sia Minnie Ransom, una santona che usa i suoi poteri curativi per riportare in salute Velma.

Poggia la lampada sulla scrivania. Si alza e afferra la sua raccolta di racconti – scritti tra il 1960 e il 1970 – nella sua primissima pubblicazione del novembre 1971, quando si intitolava ancora I Ain’t Playin, I’m Hurtin. Solo l’anno successivo è diventata Gorilla, My Love. La maggior parte di queste storie hanno un punto di vista in prima persona e sono “scritte in un inglese nero urbano ritmico” (come scrisse Gates Henry Louis Jr. in The Norton Anthology of African American Literature). La narratrice è spesso una giovane ragazza – impertinente, coraggiosa, premurosa e per nulla vittimista – saldamente inserita nella cultura afroamericana, con il suo dialetto, le tradizioni orali e la musica jazz. Tra le storie incluse ci sono Blues Ain’t No Mockin Bird, Raymond’s Run e The Lesson, entrate in quasi tutte le antologie di racconti afroamericani (oggi anche in alcuni testi scolastici).

Toni Cade Bambara sfoglia il suo libro. Queste sono tutte storie dove le protagoniste sopravvivono, e la loro sopravvivenza è un trionfo. In tutte le interviste di quegli anni le hanno chiesto se fossero storie autobiografiche. Certo che non lo sono, anche se, naturalmente, ci sono alcuni aspetti della sua personalità. Più che altro – come disse a Sturdy Black Bridges – assomigliano parecchio a persone che le piacciono.

Batte la mano sulla tempia poi afferra penna e foglio. Scrive in alto “Una specie di prefazione”.

Non è bene scrivere roba autobiografica perché appena esce il libro ecco che arriva tua madre e urla come hai potuto e oh morte dov’è il tuo dardo e ti tira giù dal letto e ti torchia per sapere che succedeva giù a Brooklyn quando lei si accollava tre lavori insieme per farti fare la bella vita e a pagina 42 scopre che trescavi con quel mascalzone in fondo alla strada e scoppia a piangere e ovviamente marito e figli ti arrivano con gli occhi gonfi di sonno a godersi il varietà delle cinque di mattina ma tanto per tua madre è ancora il millenovecentoquaranta e dintorni e tu hai ancora l’età per essere sculacciata. Ed è inutile che usi solo spezzoni di fatti veri e persone vere, anche se li mascheri o li trucchi, li cambi e li aggiusti, perché tempo un attimo e senti cigolare il carrello dei panni sporchi della tua migliore amica ma il campanello non suona e così la rincorri per strada e ti arriva questa botta d’aria gelida che il meteo non l’aveva mica prevista e lei tutta glaciale ti dice bella cosa la tua migliore amica che ti pugnala alle spalle con la penna e tu per cinquecento metri provi a spiegare che quella del libro non è mica lei, è solo capitato che dicesse una delle sue frasi e quando poi arrivate in lavanderia e sei pronta a mollare e prenderti la colpa, lei si gira e ti dice che visto che le hai rubato l’anima e straziato le carni, come minimo potresti dividere i diritti d’autore con lei. Ecco perché scrivo solo narrativa pura, perché ci tengo alla famiglia e agli amici, e soprattutto perché comunque dico un sacco di bugie. 

Toni Cade Bambara riprende il pezzo e lo rilegge. Non è niente male. Chissà se glielo accetteranno come introduzione.

(La trovate, come tutto il libro, tradotto in italiano da Cristiana Mennella come Gorilla, amore mio, per le Edizioni Sur)

 

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Michele Crescenzo

Michele Crescenzo

Michele Crescenzo legge e scrive, appena può. È nato a Napoli nel’77 dove si è laureato in Sociologia. Vive a Milano dal 2002, dove lavora in una multinazionale americana. La sua quotidianità è alternata da numeri e parole. Da lunghissime call conference internazionali alla stesura di articoli letterari. Scrive recensioni per Satisfiction. Gestisce “Ti ho Rivista” tabloid sul mondo delle riviste indipendenti italiane. Organizza eventi culturali alla libreria milanese Gogol&Company. Cura la column “Gotham's Writers” su La Voce di New York. Nel tempo libero scrive: Nel 2009 ha vinto il Premio Chatwin, concorso internazionale sul viaggio. Ha pubblicato racconti per antologie e riviste letterarie (‘tina, Pastrengo, Talking Milano, Lettura la newsletter del corriere della sera).

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