The Old Oak: ancora una volta Ken Loach (con il suo fido sceneggiatore Paul Laverty) si dimostra fedele alla sua idea di cinema, a volte semplicistica, disperatamente senza speranza ma che arriva sempre al cuore con le sue connessioni umane e battaglie sociali, il suo credere nelle persone, soprattutto gli ultimi, non perché sia ingenuo ma perché lo vuole. Da oltre mezzo secolo, fin da Poor Cow (1967), i personaggi dell’87enne regista britannico soffrono e amano rincorrendo uguaglianza, libertà e felicità, se possibile.
Il luogo dove si svolge quello che probabilmente è l’ultimo film di Ken Loach (presentato a Cannes in prima mondiale dove il regista è stato due volte vincitore della Palma d’Oro – con Il vento che accarezza l’erba, 2006, e Io, Daniel Blake, 2016 – e tre volte del Premio della Giuria) è una cittadina del nord dell’Inghilterra, nella contea di Durham, dove il locale pub, The Old Oak, con la sua insegna cadente che deve essere aggiustata, è la metaforica prova dello stato di abbandono che la cittadina, un tempo fiorente con le sue tante miniere, sta ora vivendo. Gli abitanti cercano di dare un senso alla loro vita oppure si rinchiudono ancora più in sé stessi. TJ Ballantyne (Dave Turner), uomo di mezza età, è il proprietario del pub, da anni frequentato dagli stessi, pochi clienti. L’arrivo di profughi siriani crea subito tensione tra i cittadini, che – come accade oggi in tante nazioni – invece di prendersela con decisioni e fallimenti delle autorità governative sfogano il loro malcontento sugli immigrati. Tra loro c’è anche la giovane Yara (Ebla Mari), una ragazza che parla bene inglese ed è appassionata di fotografia e lega subito con il gentile, umano, TJ (nessuna storia d’amore, per fortuna!): insieme, tra mille difficoltà, cercano di rilanciare la comunità locale organizzando una mensa per i più poveri. Ma gli ostacoli sulla loro strada sono molti.

L’amicizia di TJ con Yara promette guarigione: come loro, un giorno le due comunità potrebbero incontrarsi per capirsi e creare forti legami. Il retro del pub – chiuso da trent’anni, ma dove pendono ancora dai muri le fotografie che mostrano la tanta solidarietà vissuta durante il grande sciopero dei minatori del 1984, duramente osteggiato e sconfitto da Margaret Thacther – diventa un luogo dove cucinare e condividere pasti comunitari gratuiti: come a dire “quando si mangia insieme, si resta uniti”, oppure, come dice qualcuno del gruppo, “a volte nella vita non c’è bisogno di parole, solo di cibo”.
Nella lotta di T.J. per combattere l’odio che vede crescere nei suoi concittadini, è difficile non vedere Loach impegnarsi in un raro esempio di autoritratto mentre suggerisce che, lungi dal danneggiare la nazione britannica, le nuove comunità di immigrati offrono nuova linfa alla lotta. Questo, e solo questo, sembra dare a Loach un briciolo di speranza.
The Old Oak è un appello alla solidarietà, non alla carità, nel quale le persone non vogliono essere compatite, ma essere “viste” e potersi sentire incluse. Vogliono sedersi in un pub che sta a malapena in piedi e aspettare un altro giorno che sicuramente porterà altra disperazione: ma vogliono farlo insieme. Per Loach, non si tratta di affermare che tutto va perfettamente bene: si tratta di assicurarsi che, quando non andrà bene, non si sarà completamente soli.
Sarà anche semplicistico, con la divisione tra “buoni” e “cattivi” (tra chi ha vissuto il dramma di una guerra devastante, come i profughi siriani, e chi non sa come mettere un pasto in tavola, vede le proprie case, frutto di tanti sacrifici, oggetto di una svalutazione galoppante e svendute ad agenzie estere a cifre simboliche), ma questo è un film che arriva e colpisce duro, che lascia qualche spiraglio ma poca speranza nel futuro.
Il finale, tra i più emozionanti di tutto il cinema di Loach, è forse un sogno: si, ci dice che un altro mondo non è forse possibile, ma Loach, pur in un film di spietati eventi, ci fa vedere come dovrebbe comunque essere. Il finale è “ingenuo” ma colpisce le corde del cuore, pur se i sentimenti dello spettatore vengono consapevolmente manipolati: è un abbraccio a tutto il genere umano, è un appello finale alla solidarietà da parte di un regista che è stato sempre, “da militante”, al fianco dei poveri, degli oppressi e degli svantaggiati.