La nostra è una società basata sul lavoro, fin da bambini siamo educati a divenire futuri lavoratori, dai personaggi di fantasia che popolano libri e film alla scelta dell’indirizzo di studi, per non parlare della nostra Costituzione che recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Il mondo del lavoro sta però cambiando con l’avvento dell’automazione e dell’intelligenza artificiale e molte tipologie di occupazione esistenti potrebbero scomparire nei prossimi 15 anni afferma la ricerca The Future of Employment (Il futuro dell’occupazione), pubblicata nel 2013 dall’Università di Oxford. Insomma, saremo presto costretti a ripensare al ruolo che il lavoro ha nelle nostre vite.
A farci riflettere su tutto ciò è il “provocatorio” docu-film After Work, del regista italo-svedese Erik Gandini (Videocracy-Basta apparire, La teoria svedese dell’amore, The Rebel Surgeon, Surplus), presentato in anteprima mondiale al recente Copenhagen International Festival del cinema documentario e dal 15 giugno distribuito da Fandango nelle sale italiane.

Attraverso interviste con esperti, funzionari e gente comune, e registrazioni già esistenti di Noam Chomsky, Yiannis Varoufakis, Yuval Noah Harari ed Elon Musk, il documentario spinge astutamente a riflettere utilizzando la contrapposizione di idee. Per il filosofo americano Noam Chomsky la rivoluzione tecnologica è una liberazione, se usata per affrancare le persone da lavori stupidi e permettergli di dedicarsi a qualcosa di creativo; per lo storico israeliano Yuval Harari, invece è una condanna: “La battaglia che ci aspetta, quella da combattere – spiega – sarà contro l’irrilevanza. Peggio essere irrilevanti che sfruttati”.
Il docu-film di Gandini non si concentra sull’impatto economico dell’innovazione tecnologica, ma sulla dimensione umana del cambiamento. Visitando Corea del Sud, Italia, Stati Uniti e Kuwait, After Work descrive paesi ed esistenze molte diverse e ci catapulta in una tensione esistenziale tra ciò che già è e ciò che tra pochi anni potrebbe essere.
Si apre in Corea del Sud, il paese con il più alto numero di suicidi giovanili, dove il governo – nel tentativo di cambiare le abitudini degli impiegati oberati di lavoro e far loro capire che anche la famiglia, il tempo libero sono importanti nella vita di una persona – ha deciso di introdurre l’orario “PC off”, che spegne tutti i computer degli uffici alle 18. Per la ministra del lavoro coreana la ferrea e schiavizzante etica del lavoro del suo Paese è un retaggio di quando la Corea era molto povera, ma è tempo di porre un freno e un film governativo incoraggia i sudcoreani a trascorrere del tempo con le loro famiglie piuttosto che lavorare anche 13 ore al giorno.
“Quella particolare clip – ha detto il regista a Variety – era in qualche modo l’essenza dell’intero mio progetto: quando alle persone manca l’immaginazione di come potrebbe essere la vita, hai bisogno di aiutarle con le immagini. Abbiamo bisogno di una sorta di stimolo perché non possiamo nemmeno pensare che un diverso tipo di relazione funzioni”.
E fa paura pensare che quando Erik Gandini ha pensato a lavorare al documentario, nel 2020, non c’era ancora Chat GPT, un chatbot basato su intelligenza artificiale e apprendimento automatico sviluppato da OpenAI e specializzato nella conversazione con un utente umano. Insomma, se anni fa si pensava che sarebbero scomparsi per lo più solo i lavori manuali, faticosi, ora bisogna rendersi conto che anche i lavori creativi sono a forte rischio.
E veniamo agli Stati Uniti. Un iperenergetico esperto di sviluppo etico americano rivela che la cultura americana di essere (o sembrare almeno) sempre molto occupati porta le persone a non esaurire nemmeno le loro poche settimane di ferie. Secondo uno studio condotto dal Project Time Off della US Travel Association, nel 2018 i lavoratori americani hanno lasciato sul tavolo 768 milioni di giorni di vacanza non utilizzati: cioè più della metà dei lavoratori non ha utilizzato tutti i giorni di ferie, e il 24% non ne ha usufruito affatto.
Perché? Vivono le ferie con senso di colpa. Lo storico israeliano Yuval Noah Harari fa risalire la moderna etica del lavoro statunitense, ma non solo, al calvinismo, alla paura della dannazione, che è possibile evitare lavorando molto, e alla rivoluzione industriale, con il suo grande bisogno di nuove costruzioni in tutti i campi. Eppure negli Usa l’85% delle persone è insoddisfatta del proprio lavoro.
Nel ricchissimo Kuwait invece il lavoro potrebbe non servire più: ricco di petrolio, a volte impiega 20 persone in una stessa posizione, senza un compito effettivo da svolgere eppure pagate profumatamente. Secondo l’OMS è il paese più fisicamente inattivo del mondo!
“Sono andato lì sperando davvero di trovare qualcosa di promettente in una società senza lavoro – ha detto Gandini a Variety -. Hanno tutti questi soldi e, tuttavia, si siedono dietro le loro scrivanie vuote come se non potessero immaginare niente di diverso. È molto emotivamente, esistenzialmente, deprimente: l’idea che stai facendo qualcosa che è completamente inutile ed è così normalizzato”.

E l’Italia? Oltre ad un giardiniere felice del suo lavoro e una ricca ereditiera che trova eccitante dover pensare ogni giorno a qualcosa di nuovo da fare, After Work sottolinea un aspetto interessante: non sono solo i super-ricchi a non lavorare, all’interno della classe media italiana si trova il più grande gruppo di “NEET” (Neither in Employment, Education or Training) d’Europa, ovvero il 28,9% degli italiani tra i 20 e i 34 anni (la media europea è del 16,5%).
Nel dibattito pubblico il fenomeno dei NEET, i ragazzi ‘inattivi’, viene raccontato come una catastrofe, accompagnato dall’indignazione per il nullafacente, ‘lo sdraiato’. Ma il regista lancia una provocazione: se stiamo cercando alternative creative all’etica del lavoro statunitense e coreana diventa interessante una società come l’Italia, dove esiste una cultura del non lavoro.
La disoccupazione e i NEET sono indici nefasti, ma After Work ribalta il punto di vista: cosa faremo quando non dovremo più lavorare? Il film vuole essere una proiezione nel futuro, attraverso il presente. Come ci relazioneremo gli uni con gli altri in un mondo dove il lavoro non è più il denominatore comune?