Siamo a New York, nel 1973. James (Christopher Briney) è un giovane assistente nella galleria d’arte dove il sessantanovenne Salvador Dalì (il camaleontico premio Oscar Sir Ben Kingsley) sta preparando la sua prossima mostra. Quando il geniale artista spagnolo, inaspettatamente, gli propone di diventare assistente personale suo e di sua moglie Gala (Barbara Sukowa), il ragazzo pensa di coronare il sogno della sua vita, ma presto scopre che non è tutto oro quel che luccica. Dalì e Gala, che vivono all’hotel Ritz, sono stati attratti da James per la sua intuizione e riverenza (lui) e per il viso angelico e il fisico giovanile (lei). Dietro allo stile di vita sgargiante, al glamour e ai party sontuosi, James scopre ben presto che un grande vuoto consuma l’ormai anziano pittore: quello che è stato uno dei più grandi ed eccentrici artisti del 20° secolo è ora distrutto dalla paura di invecchiare, dal Parkinson galoppante che sta riducendo sempre più le sue capacità artistiche e dal dolore per il logoro rapporto con la dispotica moglie Gala, un tempo sua musa, ora circondata da giovani amanti e ossessionata dal denaro.
Eccovi Daliland, il film della brava regista e sceneggiatrice canadese Mary Harron (Ho sparato ad Andy Warhol, American Psycho), presentato al Toronto Film Festival 2022, fuori concorso al 40° Torino Film Festival, e nelle sale italiane il 25 maggio (negli Usa dal 9 giugno).
Attraverso il personaggio inventato di James, la regista racconta il Dalì personaggio e il Dalì uomo e fa sì che il film sia un omaggio ad uno dei più complicati artisti della storia, ma anche una denuncia della corruzione nel mondo dell’arte.
Ad appagare lo spettatore prima di tutto la bravura degli attori principali: la Sukowa – indimenticabile stella nei film di Rainer Werner Fassbinder, Margarethe von Trotta e Lars von Trier – strega lo spettatore nei panni del partner mutevole che controlla “l’impresa Dalí”, Kingsley incarna in modo magistrale l’ego gigantesco e fragile dell’eccentrico genio pittorico, il suo essere costretto a dipingere per finanziare l’ostentatamente abbondante stile di vita. Ma interessante anche l’attenzione che la regista mette, senza ricorrere ad immagini pruriginose, voyeuristiche, al sofferto rapporto di Dalì con la sua libido sessuale, filo rosso della sua vita: le tante modelle presenti alle sue feste sono servite soprattutto come ispirazione, come muse, magari inconsapevoli, per le sue opere o per dare il via a qualche estemporanea azione creativa, ma non per soddisfazione fisica (castrata dal rapporto di dipendenza con la moglie ma soprattutto, ancor prima di sposarsi, dal trauma che gli procurò la lettura di un opuscolo sulle malattie sessualmente trasmissibili).
Navigando fra luci e ombre dell’esistenza sfrenata dell’uomo che fece dell’eccesso un’arte, indagando alcuni degli aspetti meno noti della sua quotidianità, Mary Harron fornisce un mosaico introspettivo di Dalì servendosi anche di scelte stilistiche azzeccate, dalla colonna sonora alla scenografia, alla fotografia.
Detto questo, tutto bene nel film? Nel suo complesso è il ritratto di un uomo che è purtroppo più una caricatura che un personaggio. Sebbene gran parte di questo possa essere stato progettato, poiché il protagonista di questa storia non è Dalí in realtà ma James, la scelta non giustifica la lente ristretta attraverso la quale la regista vede la storia dell’artista catalano: tutti i momenti in cui si intravede la mente dell’artista offrono un pretesto per una presa in giro. Non c’è mai un momento che risulti audace: il film passa attraverso i classici movimenti del film biografico visti già innumerevoli volte.

Nota finale, film a parte. Se la storia ci dice che gli anni ’70 sono davvero per Dalì un punto di non ritorno per la sua carriera, non possiamo dimenticare il Dalì precedente: fu uno dei primi ad aver costruito su sé stesso un personaggio, ad aver lavorato non solo con pittura e scultura ma anche con cinema e fotografia, oltre a grafica e pubblicità (suo, tra l’altro, il logo dei lecca-lecca Chupa Chups). Fu ammirato da un giovanissimo e sconosciuto Jeff Koons (che dalla Pennsylvania volò a New York nella speranza di incontrarlo) e da Andy Warhol che riconobbe l’influsso delle sue intuizioni sulla Pop Art.
Presenti nel cast anche Ezra Miller che interpreta la versione giovane dell’artista, Andreja Pejic (Amanda Lear), Rupert Graves (il Capitano Moore, braccio destro di Dalì), Mark McKenna (la musicista Alice Cooper). La sceneggiatura è di John C. Walsh, collaboratore fedele e marito della regista.