Questa 73° edizione della più famosa kermesse canora italiana, al quarto anno dell’era Amadeus, si conferma una “pietra miliare”: dopo poco meno di tre quarti di secolo è finalmente riuscita ad ottenere un’audience record in tutte le serate (l’ultima al 66%) e a mettere insieme, con una formula giusta (pur se le serate sono troppo lunghe), passato e presente, giovani e meno giovani, momenti di riflessione e istanti ilari, società reale e cibernetica. Ulteriore passo in avanti, molto importante: finalmente ci sono gli artisti e le canzoni che si ascoltano maggiormente nelle radio e in streaming.

E le canzoni migliori vincono, come dimostra l’autentico trionfo di Marco Mengoni (cantante che cresce di Sanremo in Sanremo nell’uso della voce e della gestualità comunicativa): la sua Due vite, non è una ballata pura, da “tormentone”, ma avvince come i violini che la attraversano e, quando esplode, diventa subito familiare e trasforma una domanda in una consolazione “Persi tra le persone quante parole senza mai una risposta…”. Già la sua performance di Let It Be con il Kingdom Choir nella serata dei duetti aveva aumentato il solco tra lui e gli altri. Primo posto meritatissimo, senza ricorrere all’aiuto dei follower cibernetici.

Al secondo e terzo posto due giovani rivelazioni del Festival: Lazza con Cenere (“Come un pugnale nel cuore come se fossi nessuno”: rapper che ha fatto il conservatorio e si sente, anche se l’elettronica la fa da padrona e del rap non resta che… cenere! ) e Mr Rain con Supereroi (ne ho parlato ieri, non mi sorprende il posto sul podio).
A sorpresa, quarto e quindi fuori dal podio, Ultimo. Aveva detto di non essere tornato al Festival a caccia di rivincite dopo aver schiumato di rabbia per il secondo posto anni fa, e rivincite non ne ha avute: la sua Alba piano e voce non entusiasma. A mio giudizio è una posizione di classifica musicalmente immeritata, però ha un grosso seguito di follower, che pesano tanto nel televoto! Quinto Tananai con Tango, “Ma chissà perché Dio ci pesta come un Tango e ci fa dire amore…”: la storia di un addio sdrammatizzata da alcune atmosfere romantiche e cinematografiche che salvano Tananai dalla totale “sanremizzazione”. Giorgia, con Parole dette male, si è fermata al sesto posto. Il brano sembra fermo agli anni ‘90, “Ogni tanto ti vedo in giro ma poi non sei tu e quante macchine come la tua dello stesso BLU”: anticipa un album che aspettiamo da anni.
A chi non ha raggiunto importanti posizioni di classifica, che dire? Quello che si dice da 73 anni e la storia musicale ha dimostrato: “Primi a Sanremo, ultimi in classifica. E viceversa”, nel senso che un modesto piazzamento al Festival della canzone italiana si è spesso tradotto in exploit delle vendite discografiche e di ascolti. Nelle 72 precedenti edizioni due sole volte è accaduto che il brano vincitore del festival chiudesse l’anno in cima alla classifica annuale singoli: la prima con Domenico Modugno nel 1958 in gara con Nel blu dipinto di blu (Volare), la canzone che ha spaccato a metà la storia del Festival; la seconda nel 2022 con Blanco e Mahmood interpreti di Brividi.

Per tanti anni a Sanremo hanno vinto spesso canzoni destinate poi ad essere dimenticate, mentre molti grandi brani sono rimasti indietro in classifica (anche se magari insigniti del Premio della critica). Tra meteore durate lo spazio di un festival, concorrenti improbabili, momenti surreali da teatro dell’assurdo, a rimanere, per fortuna, sono sempre le grandi canzoni.
Eccone tre (ma sono tante, più di una quindicina) che non hanno vinto ma sono entrare nella Storia: Gianna, Vita spericolata, Almeno tu nell’universo.
Al Festival di Sanremo del 1978 Gianna, di Rino Gaetano, arriva terza. Musica allegra e testo carico di allusioni e giochi di parole – come voleva lo stile di Gaetano – fu la prima canzone della storia di Sanremo a contenere la parola “sesso”. La canzone, che fa parte dell’album Nuntereggae più, può essere letta anche come un racconto ironico della Massoneria e della politica italiana. Gianna è una canzone immortale e la sottile e disincantata ironia di Rino Gaetano è proprio quello che manca per “leggere” i tempi che stiamo vivendo oggi.

Vasco Rossi è l’esempio più eclatante del fatto che non serve vincere Sanremo per entrare nella storia della musica. Al festival del 1983 il rocker di Zocca si classifica penultimo con quella che sarebbe diventata una delle sue canzoni simbolo. In quell’occasione, Vasco colpisce tutti abbandonando il palco, lasciando la base musicale e il coro in playback a finire la canzone, come protesta contro le critiche ricevute all’Ariston l’anno precedente (con Vita spericolata) dai giornalisti, in particolare Nantas Salvalaggio che lo aveva definito zombie, alcolizzato, drogato. Il resto è storia.

Il Festival di Sanremo del 1989 passa alla storia per la vittoria di Anna Oxa e Fausto Leali con Ti lascerò, ma non solo. È anche il festival di una di quelle canzoni che, pur classificandosi nona, sono rimaste nel cuore di tanti: Almeno tu nell’universo, cantata da Mia Martini. Una canzone che segnò il rientro sulle scene di Mia Martini dopo anni di assurdo ostracismo da parte del mondo dello spettacolo. E il trasporto con cui l’artista canta la canzone vuole davvero dire tante cose. Almeno tu nell’universo è diventata disco di platino nel 2021. E, a dimostrare come una grande canzone va anche al di là dell’interprete, è la sorprendente versione di Elisa del 2003, incisa per la colonna sonora del film Ricordati di me di Gabriele Muccino.