Il primo giorno della mia vita, diciassettesimo film di Paolo Genovese, tratto dal libro omonimo del 2018 del regista, scrittore e sceneggiatore romano, è una storia sull’unicità di ogni essere, della vita e del tempo; è una storia sulla forza di ricominciare quando tutto intorno sembra crollare, quando si pensa di aver toccato il fondo e che non ci sia nessuna via d’uscita dal dolore. E’ però anche, di riflesso, una meditazione sulla filosofia moderna minimalista dell’apprezzare le piccole cose, i gesti, le parole e sensazioni in un mondo che va di corsa e che, per assurdo, deve andare di corsa per apprezzarle!
Un uomo, che definirei un angelo laico, Toni Servillo, offre a quattro suicidi l’occasione di vedere dall’esterno per una settimana cosa accadrà quando non ci saranno più, cosa lasciano, quale sarà la reazione di amici e parenti: hanno l’occasione di riscoprire ciò che di più prezioso hanno dentro e di vedere realizzati desideri a cui ormai avevano rinunciato. Al termine della settimana devono prendere una decisione: vogliono trasformare l’ultimo giorno della loro vita nel primo di una vita nuova? Un film che ricorda la fiaba natalizia senza tempo, “La vita è meravigliosa” (1947) di Frank Capra: lì la scelta riguardava il presente, qui il futuro. Un film che sembra per certi versi newyorkese (“la città dove tutto è possibile”) perché doveva essere girato in America, con attori statunitensi, poi però la pandemia ha fatto saltare i piani. A suscitare in Paolo Genovese l’idea è stata la visione del documentario The Bridge-Il ponte dei suicidi (2016) di Eric Steel, che per un anno aveva posto una telecamera sul Golden Gate Bridge di San Francisco dove si registra il più alto numero di suicidi: 24 quell’anno! Il documentario riportava alcune interviste a sopravvissuti, da cui risultava chiaro che durante il tuffo c’era stata forte in loro la consapevolezza di aver fatto una scelta sbagliata e il desiderio di tornare indietro.

Nel film di Genovese i quattro suicidi, un uomo, due donne e un bambino, sono Napoleone, Valerio Mastrandrea, professionista di successo, uomo di teatro che vuole offrire al pubblico la possibilità di essere felice, ma ha perso il sorriso, travolto da una disperazione esistenziale; Arianna, Margherita Buy, poliziotta travolta dalla morte del figlio, che le provoca un grande senso di colpa; Emilia, Sara Serraiocco, ginnasta olimpica che nei tornei internazionali e nella vita arriva sempre seconda; Daniele, Gabriele Cristini, piccolo divo di You Tube, influencer grassottello suo malgrado perché forzato dai genitori, Antonio Gerardi e Livia Vitale, a mangiare ciambelle per stabilire nuovi record. Nel cast anche Vittoria Puccini, altro angelo laico, e Lino Guanciale.
Il primo giorno della mia vita ha il pregio di tenersi lontano dalla retorica che compare spesso nei film che riguardano il profondo delle persone e scelte di vita importanti grazie anche ad una recitazione dal tono sobrio ed una sceneggiatura che non sostiene di avere la verità in tasca e suggerisce che è possibile superare i momenti più difficili aprendoci all’ascolto di chi ci dice che non tutto è perduto. Per i quattro suicidi del film è un breve, surreale viaggio nel futuro che tra nostalgia della felicità, episodi comici e momenti drammatici, li costringe a guardare sé stessi e gli altri in modo diverso.

Quanto offre l’angelo laico, cioè la possibilità di guardarsi da fuori per guardarsi meglio dentro, è una metafora di quanto fa il cinema: guardando da fuori fa magari scattare in noi una riflessione che ci fa guardare meglio dentro noi stessi, come succede in The Fabelmans, ultimo film di Steven Spielberg, quando per esempio il giovane regista, occupandosi del montaggio di quello che il padre ha filmato al campeggio, scopre la verità sulla sua famiglia.
Il film di Paolo Genovese assume un valore particolare in un periodo di “smarrimento”, come quello che stiamo vivendo, sul piano sociale, politico, comportamentale: è importante avere accanto, andandole magari a cercare e con coraggio chiedendo loro aiuto, persone con cui è possibile parlare in modo vero, profondo, per allontanarci dallo smarrimento esistenziale.