10 luglio 2013. East 71st Street, New York. Joan Didion è a casa, seduta sul suo divano bianco. Aspetta l’auto presidenziale che la porterà a Washinton per ricevere la National Arts Medal dal presidente Barack Obama. Si sporge verso lo specchio e si osserva. Il suo abito a motivi floreali rosa polveroso le piace. Le ricorda il colore delle pareti della sua camera d’infanzia a Sacramento dove è nata e dove – negli anni ’60 e ’70 – è tornata rigorosamente a finire i suoi romanzi.
Si alza, attenta a non colpire le orchidee sul tavolino di vetro accanto al divano, e si ferma sulla sedia accanto alla finestra. Sull’impalcatura davanti casa c’è un cartellone pubblicitario di una ditta di trasporto con l’immagine geografica degli Stati Uniti e tre frecce che vanno da un lato all’altro. È quello che ha fatto lei durante la sua vita, pensa, passare da una costa all’altra. È nata a Sacramento in California e dopo essersi laureata in lettere nel 1956 alla Berkeley si è trasferita a New York per Vogue dal 1956 al 1964, poi è tornata in California per ritornare sulla East Cost nel 1988 dove vive ancora.
Joan Didion muove il dito lungo il vetro, come a ricalcare la prima freccia. Quella da ovest a est, da Sacramento a New York. “Passare dalla Berkeley a Vogue è stata considerata un’aberrazione da alcuni membri dell’università”, scrisse Didion nel 2000 “Vogue veniva vista come un’educazione eccentrica e per certi versi esotica, ma c’era un rigore rinvigorente.” Durante quegli anni lei ha lavorato durante il giorno e di notte scriveva il suo primo romanzo Run River (tradotto da Sarah Victoria Barberis per il Saggiatore). Il romanzo fu pubblicato nel 1963 ed è la storia e la saga di una famiglia accecata dal tramonto del sogno americano. “L’avranno letto in undici”, ha detto, poi, scherzosamente nel documentario “The center will not hold” creato dal nipote, l’attore e regista Griffin Dunne.
Nel 1964 sposò lo scrittore John Gregory Dunne. Il matrimonio, avrebbe scritto in seguito, era “una cosa molto buona da fare ma con un tempismo sbagliato”. Era afflitta da emicrania ed era spesso depressa, indossava persino occhiali scuri durante la cerimonia nuziale.
Joan Didion sta per staccare il polpastrello dal vetro, ma poi ci ripensa. Vuole soffermarsi un attimo. Quell’addio a New York merita un attimo di riflessione. Prima di andare via ha scritto, infatti, il saggio Goodbye to All That in cui affermava: “È facile vedere l’inizio delle cose, più difficile vederne la fine. Adesso riesco a ricordare, con una chiarezza che mi arriccia i nervi sulla nuca, quando New York iniziò per me, ma non riesco a indicare a che punto finì, non riesco mai a superare le ambiguità e i ripensamenti e i propositi infranti per arrivare al punto esatto sulla pagina dove l’eroina non è più ottimista come un tempo”. Nello stesso saggio scrive: “New York non era una semplice città, era invece un’idea infinitamente romantica, il misterioso nesso di tutto l’amore, il denaro e il potere, lo splendente e il sogno stesso deperibile.”
Joan Didion questa volta stacca il dito dal vetro e rimarca la seconda freccia del cartellone pubblicitario, quella da est verso ovest, verso la California. Verso la casa sull’oceano, la crisi familiare, l’adozione della figlia Quintana nel 1966 e la pubblicazione, nel 1968 di Slouching Towards Bethlehem (Verso Betlemme tradotta da Delfina Vezzoli per Il Saggiatore) il suo primo lavoro di saggistica, costituito da una raccolta di articoli scritti per riviste.
In quegli anni la vita familiare ha avuto diversi problemi tanto che la prima frase della sua prima rubrica per la rivista Life, nel 1969, è stata: “Siamo qui su quest’isola nel mezzo del Pacifico invece di chiedere il divorzio”. Nello stesso articolo. “Tutto ciò che mi è stato insegnato sembra fuori luogo. Il punto stesso sembra sempre più oscuro.” Ma la relazione tra lei e John Dunne continuò nonostante tutti i problemi, i traslochi, le feste con i The Doors, Janis Joplin, Roman Polanski e il giovanissimo Harrison Ford (che era, a quei tempi, il carpentiere di famiglia). “Erano, nel miglior senso della parola, invischiati l’uno nella vita dell’altro”, ha detto un amico della coppia al Los Angeles Times nel 2005, “erano una di quelle rare coppie in cui si ci apprezzava davvero, sia come persone che come scrittori”.
Nel 1972 le fu diagnosticata la sclerosi multipla, dopo aver sperimentato periodi di cecità a occhi alterni che duravano fino a sei settimane alla volta. “Avevo, in quel momento, un’acuta apprensione non di cosa significasse essere vecchi, ma di come fosse aprire la porta allo sconosciuto e scoprire che lo sconosciuto aveva davvero il coltello”, ha dichiarato al Los Angeles Times. Ha vissuto con la malattia in remissione per la maggior parte della sua vita, ma non è andata a sottoporsi a ulteriori test per provare o smentire la diagnosi, perché “non avevo avuto un sintomo da allora all’inizio degli anni ’70 e non sembrava valesse la pena sottoporsi a una risonanza magnetica per dimostrare qualcosa che non volevo dimostrare. (“La mortalità sembra essere una di quelle cose che affronti più e più volte senza capirla del tutto”, ha aggiunto).
Nel 1979, ha pubblicato The White Album ( tradotta da Delfina Vezzoli per Il Saggiatore) un’altra raccolta del suo giornalismo da Life, Esquire, The New York Times, e la New York Review of Books. Martin Amis l’ha definita “la poetessa del grande vuoto californiano” nella sua recensione per la London Review of Books.

Didion e Dunne erano mirabilmente moderni nell’educazione della figlia: Dunne preparava la colazione per Quintana e la portava a scuola la mattina, mentre Didion “si alzava, beveva una Coca-Cola e iniziava a lavorare”. In quel periodo Didion è diventata la più importante giornalista dei suoi tempi. “Ha creato, nei suoi libri, uno dei ritratti più devastanti e distintivi dell’America moderna che si possa trovare nella narrativa o nella saggistica, un ritratto dell’America in cui ‘il disordine era il suo scopo”, ha scritto Michiko Kakutani sul New York Times nel 1979. “Una giornalista di talento con un occhio per i dettagli rivelatori – l’orlo sfilacciato, la mano tremante – con una voce precisa, il tono non sentimentale e il punto di vista sfacciatamente soggettivo. Il marito Dunne ha dichiarato: “Joan è davvero una persona piuttosto allegra che guida una Corvette giallo brillante. Di persona, non ha una visione oscura della vita. Semplicemente non si aspetta molto da questo o dagli altri”.
Didion si è poi allontanata dal resoconto osservativo e dall’introspezione e verso il saggio analitico pubblicando Salvador nel 1983 e Miami nel 1987 (traduzione di Teresa Martin per Il Saggiatore).
Joan Didion sorride ripensando a quegli anni. Poi ricalca l’ultima freccia quella che l’ha fatta tornare alla costa orientale. Nel 1988, infatti, lei e Dunne tornarono a New York, dove Dunne morì improvvisamente per un attacco di cuore nel dicembre 2003, poco prima del loro 40° anniversario. A quel tempo, la loro figlia, Quintana, era priva di sensi nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Beth Israel, affetta da polmonite che si era trasformata in shock settico. Didion ritardò il funerale di Dunne di tre mesi finché Quintana non fu abbastanza in salute da poter partecipare. Nel 2005 venne pubblicato The Year of Magical Thinking (L’anno del pensiero magico traduzione di Vincenzo Mantovani, Il Saggiatore) dove Joan Didion ha raccontato il dolore della perdita improvvisa del marito applicando il distacco giornalistico per il quale era nota. Il titolo del libro si riferisce al pensiero magico in senso antropologico, pensando che se una persona spera in qualcosa di sufficiente o compie le azioni giuste allora un evento inevitabile può essere evitato. Didion ha annotato molti esempi del suo pensiero magico, in particolare la storia in cui non può dare via le scarpe di Dunne, poiché ne avrebbe bisogno al suo ritorno. Il libro ha vinto il National Book Award, The New York Times ha dichiarato: «è un libro vivo, tagliente e memorabile; un racconto preciso, candido e penetrante; un ritratto indelebile della perdita e del lutto.»
Quintana è morta di pancreatite acuta il 26 agosto 2005, all’età di 39 anni. Didion ha affrontato la morte della figlia come ha fatto con il marito: scrivendo. Nel 2011 viene pubblicato Blue Nights (traduzione di Delfina Vezzoli, Il Saggiatore) un libro sull’invecchiamento e la perdita di sua figlia, un saggio che il New York Times ha descritto come un’opera in cui fa i conti con “il fatto sconcertante che contro i peggiori assalti della vita niente vale, nemmeno l’arte.”
Il citofono squilla. Joan Didion stacca il dito dal vetro e apre la porta. Un uomo alto in giacca e cravatta le indica l’auto presidenziale. Il presidente Obama l’aspetta, gli dice. Lei si scusa un attimo e va a prendere uno scialle blu scuro da mettere sulle spalle.
Attraverso i suoi scritti sull’amore e la perdita, l’innocenza e l’inganno, la nostalgia e la memoria, Didion ha inventato un modo di essere nel mondo: un’osservatrice acuta, rigorosa e perspicace. “Molti scrittori scrivono introspezione irritata, o reportage orientati ai dettagli, o commenti culturali controintuitivi o giornalismo sullo stile di vita. Ma finora solo Didion li ha realizzati tutti e quattro in perfetta sintesi”, ha scritto Nathan Heller per Vogue nel 2014.
Appena esce di casa scorge ancora il cartellone pubblicitario. In basso c’è un’indicazione colorata che le era sfuggita in casa. Quella che la ditta di trasloco accetta anche oggetti fragili. Lei sorride, ricordando quando rispose a un’intervista a Dana Spiotta dicendo: “Non sono così fragile come la gente immagina che io sia. Non lo sono mai stata”. L’uomo in giacca e cravatta le apre la portiera dell’auto. Lei si siede piano sul sedile posteriore. Preso, annuncia, non facciamo aspettare il presidente.