C’è un uomo davanti a noi vestito bene, in modo sobrio, parla più lingue, è bravo con i numeri. E’ un ottimo investitore, sa fare affari, conosce le persone giuste. Sembra benvenuto ovunque. Arriva sempre con delle soluzioni tempestive: immensi capitali da investire in titoli di Stato; ingenti somme da prestare alle aziende in grave difficoltà; offerte di contratti per lo smaltimento dei rifiuti tossici che nessuno può battere; interesse a comprare tutto quello che è in vendita. E’ un uomo d’affari molto attivo ed è ovunque, pronto con i soldi, a far fare soldi anche a noi. L’unica differenza tra lui e altri investitori internazionali è che se ci venisse voglia di tirarci indietro e negargli la nostra partecipazione ai suoi affari, abbiamo il sospetto che ci potrebbe uccidere.
Questo è il profilo di un ‘ndranghetista, un esponente della ‘ndrangheta, la mafia calabrese. Fuori dai confini, edito da Mondadori, racconta le sue peregrinazioni e il suo mettere radici nelle varie zone economiche del mondo. Gli autori, il magistrato Nicola Gratteri e lo studioso Antonio Nicaso, partono il primo dall’esperienza diretta delle sue inchieste e il secondo dagli studi e le analisi storiche e criminologiche per fornirci gli elementi per una comprensione più approfondita del fenomeno criminale.
L’idea che ci siamo fatti della mafia, alimentata dai film romantici e dalle serie TV irrealistiche, è che sia tutta bombe e scontri a fuoco eclatanti. Invece lo scontro frontale con lo Stato, di Totò Riina & Co., è stato la grande anomalia, il periodo di vera aberrazione della mafia. Da 150 anni – tranne appunto il periodo delle stragi – le mafie vanno a braccetto col Potere: in accordo con i loro complici nella classe dirigente. La ‘ndrangheta, più delle altre mafie, ha come regola di centellinare la violenza e normalizzare la propria condotta, così da imporre la loro Legge del più forte, dappertutto.
Non si uccide più; si compra per poi investire, corretto?
NICASO: Dopo la strage di Duisburg, [Germania, ndr] la ’ndrangheta ha capito, a sue spese, l’importanza di muoversi sottotraccia. Sparare di meno non significa però abbandonare l’uso della violenza. Oggi, la ’ndrangheta spara di meno perché ha meno necessità di farlo, grazie alla reputazione accumulata nel tempo, ma soprattutto grazie alla capacità di corrompere e di infiltrarsi nei settori vitali dell’economia. Hanno tanti soldi e possono permettersi di investirli dove trovano meno resistenza, dove le leggi sono meno affliggenti.
Questa mafia sta diventando una componente strutturale del capitalismo finanziario che oggi governa il mondo. Come si combatte?
NICASO: Se la ’ndrangheta dimostra di avere lo sguardo presbite, la politica è sempre più miope. In Italia si stanno mettendo in discussione quelle misure che hanno finora consentito di sferrare colpi importanti nella lotta contro le mafie (ergastolo ostativo, intercettazioni, reati contro la pubblica amministrazione). Nel resto del mondo, proprio perché le mafie non creano allarme sociale, l’azione di contrasto è molto debole. In Europa si riesce a confiscare meno dell’1% delle ricchezze delle mafie. Fuori dall’Europa, ancora di meno.
le polizie e le magistrature dei paesi europei in cui opera la ’ndrangheta sono coscienti della dimensione e gravità del fenomeno?
GRATTERI: Penso di sì, ma se da una parte la ’ndrangheta non si fa notare, dall’altra molti fanno finta di non vederla. Forse per ragioni di marketing territoriale. Gli fa comodo dire che nei loro territori ci sono mafiosi, ma non mafie, strutturalmente radicate. Ma se poniamo lo sguardo su paesi come Germania, Canada, Stati Uniti, per fare qualche esempio, la presenza della ’ndrangheta ha radici che si perdono nel tempo. Negli Stati Uniti i primi ’ndranghetisti sono arrivati alla fine dell’Ottocento, in Canada agli inizi del Novecento e in Germania nel secondo dopoguerra.
Avete criticato la Riforma Cartabia che impedisce al giudice di commentare le sentenze: perché?
GRATTERI: Nessuno si è opposto a questa riforma, né editori, né l’ordine dei giornalisti. Eppure le conferenze stampa servono a spiegare, a incoraggiare la gente a denunciare, a non voltarsi dall’altra parte, ma soprattutto a illustrare, documentare l’importante, meticoloso e incisivo lavoro delle forze dell’ordine. È un bavaglio che io ho criticato dal primo momento. L’informazione non può essere negata. Eppure, sta succedendo.
Il periodo che stiamo attraversando nella lotta al fenomeno mafioso ha, secondo lei, qualche somiglianza con altri?
NICASO: Nella lotta alle mafie non c’è mai stata continuità. Quando alla fine degli anni Sessanta, si era riusciti a sferrare un colpo quasi mortale a Cosa nostra in Sicilia, tanto che i mafiosi erano stati costretti a sciogliere la commissione regionale, lo Stato nelle sue varie articolazioni si è guardato bene nel continuare su quella strada. È stato distratto da altri fronti di lotta.
Posso solo dire che in Italia, si sono vinte almeno due battaglie; una contro il brigantaggio e l’altra contro il terrorismo. In entrambi i casi lo scontro era frontale, la sfida lanciata aveva come obiettivo il potere costituito dello Stato. In quelle due occasioni, lo Stato ha reagito e ha vinto. Nella guerra contro la mafia, non si è riusciti a fare altrettanto. Forse perché con l’eccezione dei Corleonesi nel periodo stragista, la violenza delle mafie è sempre stata strategica, mai rivolta contro lo Stato. È stata violenza di relazioni. E molte di quelle relazioni sono state strette con gente che avrebbe dovuto combatterla su tutti i fronti.