Avrebbe mai immaginato di entrare nella Storia con la esse maiuscola?
Assolutamente no. All’epoca ero poco più che un adolescente arruolato nell’esercito americano, partito dall’Illinois e sbarcato in Europa per combattere una guerra di cui capivo poco. Oggi però posso dire con cognizione di causa che sono orgoglioso di quel che abbiamo fatto.
E’ l’ultimo superstite. L’ultimo sopravvissuto di un’impresa ai limiti dell’impossibile, che non è ancora finita. Richard Barancik ha compiuto 99 anni a ottobre. Vive a Chicago in una bella casa, impreziosita da un’importante collezione di dipinti. La cosa non stupisce: ha studiato arte e dal ’50 al ’93 è stato uno degli architetti che ha cambiato il volto alla sua città, progettando interi quartieri, grattacieli, campus universitari, hotel e centri commerciali. Non sente il peso dell’età, fosse per lui sarebbe sempre e ancora in viaggio. Viaggiare è stata la passione di una vita. Vita lunga e piena la sua, con un momento topico ambientato in Europa nel 1944. Degno di essere raccontato.
Il signor Barancik è l’ultimo dei Monuments Men, la leggendaria task force voluta dal presidente Roosevelt e dallo Stato maggiore americano che durante la seconda guerra mondiale ha salvato tutte le bellezze del mondo dal saccheggio di Hitler. Erano 348 militari di14 diverse nazionalità: è rimasto lui. Il gruppo di valorosi ha rintracciato fra mille peripezie dipinti inestimabili, disegni di maestri, sculture meravigliose, libri rarissimi, arazzi, antiche monete. Un bottino incalcolabile trafugato dai nazisti. Qualche esempio? La Madonna di Bruges di Michelangelo e la Dama con l’ermellino di Leonardo, l’Autoritratto di Rembrandt e l’Astronomo di Vermeer. I Monuments Men avevano una missione da compiere: censire, localizzare, ritrovare e mettere al sicuro le opere d’arte razziate. Fu la più grande caccia al tesoro della storia.

Mister Barancik, la vostra unità è riuscita a recuperare 5 milioni di opere straordinarie. Che cosa prova a essere l’unico sopravvissuto di un’avventura irripetibile?
E’ capitato a me, la sorte ha voluto così. Semplicemente mi sento onorato di aver servito il mio Paese.
All’epoca lei era un ragazzo di vent’anni, che vide per la prima volta la morte in faccia la vigilia di Natale del ’44. Vuole raccontare quel che accadde?
La mia divisione, la 66esima, doveva attraversare la Manica a bordo di navi militari. Ma una di loro fu silurata da un sottomarino tedesco: quando attraccammo a Cherbourg, in Francia, vidi centinaia di corpi senza vita fra le onde. Erano i miei compagni. Un orrore tenuto segreto per anni: ci furono molti responsabili di quel disastro. Il capitano della nave belga, la Leopoldville, ricevette un ordine sbagliato e l’equipaggio abbandonò la nave. Una imbarcazione britannica era nei pressi ma si allontanò. E il quartiere generale americano nel porto non venne in aiuto perché stava festeggiando la notte di Natale. Non riesco a dimenticare quella scena, con la pioggia martellante e il gelo che entrava nelle ossa.
Un evento terribile. Poi però la sorte la risarcì: fu arruolato nei Monuments Men. Perché proprio lei?
Per una serie di circostanze concatenate. Ero stato riassegnato alla 42sima divisione, di stanza in Austria a 60 chilometri da Salisburgo, tra le montagne. Fu pubblicato un bollettino: cercavano un soldato che avesse cognizioni di belle arti, da impiegare nella ricerca dei beni trafugati dai nazisti nelle chiese o sottratti alle famiglie ebree. Mi presentai, dato che da civile ero studente di architettura all’università dell’Illinois, e mi presero immediatamente.
Conosceva gli altri del gruppo?
No, anche perché alcuni si ritrovarono lì per caso. Harry Ettlinger, per esempio: era un ebreo diciannovenne che parlava tedesco, dote fondamentale durante la guerra. Ebbe un ruolo importante anche se non sapeva nulla di arte. Ma in maggioranza si trattava di uomini di grande cultura, con il doppio dei miei anni, di cui avevo letto i nomi sui libri: furono loro a farmi capire l’eccezionale importanza della missione. C’erano famosi direttori di musei, storici dell’arte, archivisti e bibliotecari. Celebrità come Shernon Lee, autorevole studioso dell’arte asiatica, o James Rorimer del Metropolitan Museum. Fu un privilegio lavorare assieme a persone così. Influenzarono la mia vita a tal punto che più tardi rimasi in Europa per studiare architettura a Cambridge e belle arti a Fontainebleau.
Ha qualche rimpianto rispetto alla vostra impresa?
Per tre mesi ho prestato servizio di guardia durante il trasferimento dei capolavori rubati fino al punto di raccolta centrale di Wiesbaden. Abbiamo salvato opere che rappresentano un patrimonio dell’umanità. Ma migliaia di altre sono andate perdute. O sono ancora in mani sbagliate. Io sono troppo vecchio, i più giovani devono continuare la nostra caccia.
Leggendo diversi articoli su di lei, si nota una stranezza: viene trattata la sua figura di architetto ma si accenna solo di sfuggita ai Monuments Men. Perché?
La nostra missione era quasi sconosciuta finché lo storico Robert Edsel l’ha sottratta all’oblio. Grazie alle sue ricerche, ai suoi studi, è nata la Fondazione presieduta oggi dalla fiorentina Anna Bottinelli, una giovane e brillante ricercatrice che ha un archivio fornitissimo di informazioni e documenti. Dopo la pubblicazione del libro di Edsel siamo improvvisamente finiti sui giornali. E nel 2015 abbiamo ricevuto la medaglia d’oro dal Congresso degli Stati Uniti, un onore che capita a pochi. Ci hanno fatti sentire eroi popolari: ora anche le giovani generazioni sanno chi eravamo.

Da quel libro George Clooney ha tratto un film memorabile con un cast d’eccezione. Com’è stato vedersi raccontato al cinema?
Beh, il film non sempre presenta una ricostruzione accurata degli eventi: ha il tipico trattamento hollywoodiano, un po’ romanzato. L’avventura proiettata sul grande schermo è sempre molto attraente per il grande pubblico.
Ha mai incontrato Clooney?
Non c’è stata l’occasione. Però lui è fantastico. Mia figlia e il resto della famiglia dicono scherzando che ha interpretato proprio il mio personaggio… ma non è bello come me.
Mister Barancik, alcuni Monuments Men sono morti per recuperare opere rubate dai nazisti. Non posso non chiederle: ne valeva la pena?
E io non posso che rispondere con un’altra domanda: valeva la pena di combattere quella guerra?
Per approfondire leggere l’articolo sulla Monuments Men and Women Foundation
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