Voleva stare dietro un obiettivo, si è ritrovato davanti. Sognava da bambino di fare il fotografo è diventato uno dei conduttori più amati di Mediaset. Davide Mengacci con i suoi programmi è entrato nelle case degli italiani e persino degli americani (i suoi show venivano riproposti negli Stati Uniti agli abbonati Mediaset) raccontando la cucina regionale e le bellezze dei paesini nascosti. Ha iniziato nel 1986 con Otto Italie allo specchio, Diritto di cronaca e Candid Camera Show, è diventato una star nel 1990 con Scene da un matrimonio, Non è la Rai, Il pranzo è servito e Perdonami. Seguiti da programmi itineranti sulle tradizioni popolari regionali come La domenica del villaggio, che ha condotto con Mara Carfagna, prima che diventasse una protagonista nel partito di Berlusconi. Finché un giorno, 20 anni dopo averla abbandonata, ha ripreso in mano quella macchina fotografica impolverata e ricominciato a sognare.

“Ho iniziato per passione, fotografavo i personaggi che venivano da mia madre che era costumista al Piccolo Teatro di Milano e poi alla Scala. Appena ho potuto mi sono proposto ai giornali italiani come fotoreporter. Lavoravo anche per una famosa agenzia fotografica di Milano, la Olympia, che allora era un punto di arrivo.
Perché non ha continuato?
Perché ad un certo punto ho capito che stavo buttando via speranze, dedizione e soldi nel tentativo di trasformare la mia passione in una professione duratura. Per tanti anni ci ho provato, ma il mercato della fotografia e del fotogiornalismo in Italia era ed è troppo povero.
Lei ha “scattato” molto in bianconero: inseguiva qualche mito della fotografia?
Avevo dei modelli, come tutti. I miei erano (e restano nel campo dell’immagine in bianco e nero) Henry Cartier Bresson, Ugo Mulas, Gianni Berengo Gardin, Doisneau. Poi, negli ultimi tempi, Giovanni Gastel. Ma ormai, da tempo, faccio solo foto a colori.
Perché?
C’è stato un elemento scatenante. Vedere le immagini a colori dei fotografi dell’agenzia Magnum. Mi sono convinto che anche tutte le mie foto in bianco e nero avrebbero avuto un impatto diverso se fatte a colori.
Scatta ancora foto?
Si, ma in forma occasionale. L’ultimo servizio realizzato su commissione è del 2016. Poi magari che con quelle immagini compongo un libro fotografico.
Lei ha firmato bellissimi volumi di fotografia, ricordo quello sulla vecchia Milano, sui cani…
A Milano ci vivo, è la mia città, ho scattato migliaia di foto. Ho nostalgia della città di un tempo, ho nostalgia della nebbia, che dava a tutte le cose un’aurea diversa, magica. Quanto ai cani, beh io da sempre ho cani in casa, sono animali fantastici, non riesco a concepire la mia vita senza un cane, e sul rapporto cani e padroni ho realizzato un libro a cui tengo molto.

Che differenza c’è per lei tra una buona foto e una bella foto?
La buona foto non deve necessariamente essere anche bella. Una bella fotografia può essere anche buona. Mi spiego: la foto di Capa scattata al soldato americano immerso nell’acqua durante lo sbarco in Normandia non è una bella foto, anzi tecnicamente è pessima, perché è mossa, fuori fuoco, sgranata, ma è buona perché racconta tutto il dramma di quel momento storico. Oggi, se devo fare un esempio di belle e buone foto, penso alle immagini che scatta Massimo Sestini.
Tra le tante immagini che ha scattato, lei ha una sua fotografia simbolo?
Certo, è del 1969, in bianco e nero, ed è l’operaio che sta lavorando in cima ad una lunga scala. Quella mi identifica. Un po’ come la famosa auto Mini inglese sulla spiaggia fotografata da Berengo Gardin.

Lo sa che i suoi programmi di cucina erano trasmessi da Mediaset anche negli Stati Uniti?
Un onore, perchè ho sempre voluto far conoscere i valori culinari italiani all’estero. Quando vado a New York trovo sempre persone che mi riconoscono e mi salutano. Questa cosa mi fa sempre piacere.
Cosa ha mantenuto di quegli inizi da fotografo?
La carica intellettuale e culturale. L’ho mantenute vive nonostante il mio lavoro in televisione. Perché, diciamocelo, la televisione in linea generale di livello culturale ne ha poco. Anche se io, nei miei programmi in tv, ho sempre cercato di mettere un po’ di cultura, perlomeno popolare.
Un giudizio severo per uno che ha lavorato in televisione per più di 30 anni…
Da certi punti di vista l’evoluzione della tv italiana, con le emittenti private o cosiddette commerciali, è sicuramente criticabile. Il livello culturale si è abbassato, non si può negare, se raffrontato a quello della televisione di 40 o 50 anni fa. Ma la tv è nata per fare informazione di massa, non cultura.