A distanza di 24 anni dall’ultima mostra antologica a lui dedicata, torna in esposizione a Bologna l’opera del fumettista visionario Andrea Pazienza. Dal 7 maggio al 26 settembre 2021, sarà possibile visitare a Palazzo Albergati Fino all’estremo, una retrospettiva che affonda nel cuore della produzione dell’artista sanbenedettese, con oltre 100 opere provenienti dagli archivi privati di persone che furono a lui vicine di cuore, tra tavole originali dei fumetti, opere pittoriche e una selezione di rare immagini del fotografo Enrico Scuro dedicate agli anni di fuoco bolognesi. Bologna è stata infatti la città elettiva di Paz, che ha vissuto nel capoluogo emiliano la sua fervida esperienza creativa legata al Movimento del ’77, che fa da sfondo al fumetto Le straordinarie avventure di Pentothal, suo primo lavoro pubblicato sulla rivista Alter Alter del 1977. É negli ardenti “Seventies” che nasce la fruttuosa collaborazione con l’eclettico artista Filippo Scòzzari, con cui Paz entra a far parte del gruppo che dà vita alla rivista cult Cannibale fondando con lui, agli albori degli anni ’80, insieme al gruppo di Cannibale e al giornalista napoletano Vincenzo Sparagna, il mensile Frigidaire. Scòzzari offre a La Voce di New York, nel suo modo caustico e sferzante, un ricordo di Paz e degli anni d’oro del fumetto, ben raffigurati nel suo libro Prima pagare poi ricordare (Fandango libri).
Ha visitato la mostra bolognese Fino all’estremo dedicata ad Andrea Pazienza? Che impressione ne ha avuto?
“Non l’ho vista. Paz lo so a memoria, e the thrill is gone”.
La mostra è un viaggio nella vita dell’artista perso tra le vie di una Bologna resa calda dai movimenti studenteschi e dalle lotte politiche degli anni Settanta. Che ricordo ha di quegli anni che ha condiviso con Pazienza?
“Ricordo che non mi interessavano i moti di piazza: li giudicavo velleitari e perdenti, il nemico era troppo forte. Ma il motivo principale del mio disinteresse era dovuto al fatto che ero impegnatissimo a edificare i miei universi, ingegnare le mie grammatiche, e per le lotte altrui non avevo né tempo né attenzioni. Anche Paz in quei giorni luminosi stava costruendo il proprio linguaggio ed era disinteressato quanto me”.
Ha nostalgia di quegli anni?
“Un po’…”.
Che ricordo ha invece di Pazienza uomo? Al di là della collaborazione artistica, che tipo di rapporto avevate?
“Conflittuale: lo giudicai al volo un orecchiante, un furbo e un fasullo. D’altra parte veniva dalla provincia, era giovanissimo, non aveva maturato gli strumenti per nasare subito quali fossero gli artigli della città, che cominciò a lavorarselo: morbidino e appetitoso. Non mi sono mai ricreduto. Per lui invece io camminavo sulle spalle degli altri, ma non ho mai capito a quali mie azionacce si riferisse. Andavamo d’accordo solo nell’impartire al fumetto nuove regole, temi, sensibilità. Nessuno come noi due ha mai pigiato tanto sull’acceleratore della qualità”.
Le riviste “Cannibale” e “Frigidaire” hanno convogliato forme di creatività militante. Intravede oggi espressioni artistiche altrettanto originali, mordaci e controcorrente?
“No”.
La matita può essere ancora uno strumento di lotta politica?
“Solo se agitata sotto i vessilli dell’utilità, della cultura, dell’importanza. Beh, insomma, ho voglia di ripetermi: utilità è la parolina magica…”.
Ha visitato la mostra bolognese Fino all’estremo dedicata ad Andrea Pazienza? Che impressione ne ha avuto?
“Non l’ho vista. Paz lo so a memoria, e the thrill is gone”.
La generazione “Seventy” era caratterizzata da un mix esplosivo di disorientamento, precarietà e inquietudine, che trovava canali espressivi dirompenti. Che fine ha fatto tutta quella rabbia propulsiva?
“Faded away…”.
In che modo ha inciso nella società? É servita a qualcosa?
“Su certi palcoscenici la creatività propose – a volte con saggia prepotenza – strade nuove: musica, scrittura, teatro, fumetto. Ma di per sé non è uno strumento che possa cambiare immediatamente i meccanismi mentali, i riti del consumo, le politiche interiori. É un medicinale che lavora su tempi lunghi, lunghi, lunghi. Insopportabilmente lunghi, e io sto ancora aspettando i frutti di quella stagione”.
Come vanno le cose attualmente nel mondo dei fumetti? Si interessa alle creazioni dei giovani artisti?
“Poco e niente. Eccetto alcuni bravi ragazzi, là fuori è una cacofonia, uno stolto birignao, la recita a freddo di sentimenti precotti, l’inseguimento di paradisi personali, che non arriveranno per tutti. Scordatevelo, boys”.
Che cos’è cambiato nella storia del fumetto, nel passaggio dall’essere forma d’arte dissacrante a “nona arte” patinata?
“Per alcuni è arrivata la sospirata patina, per moltissimi il sacrosanto dimenticatoio. Ma il peso specifico generale non si è mai mosso di molto sopra lo zero”.
Esistono ancora dei collettivi militanti o vige, nell’arte fumettistica come nella società, una concezione individualistica?
“Ribadisco: vige la caccia ai paradisi personali, alle svanziche – sempre più scarse, per altro. Si è perso il concetto di lotta per bande”.
La possibilità di migliorare le immagini offerta dal computer è un surplus qualitativo o toglie efficacia all’istinto manuale?
“Il pc è uno strumento, come la matita. O lo sai usare o non lo sai usare. Rigetto gli anatemi contro modernità”.
C’è qualche fumettista o qualche movimento, anche nel panorama internazionale, che ritiene particolarmente incisivo nella rappresentazione critica della realtà attuale?
“Non ho abbastanza soldi per seguire ogni abitante del pianeta Matita. Ma sono abbastanza sicuro che se da qualche parte fosse scattata qualche rivoluzione, di segno e di senso, almeno gli echi mi arriverebbero”.
In passato riteneva, forse provocatoriamente, che il fumetto non avesse alcuna valenza culturale. Come la pensa oggi?
“La pensavo così? Sei sicura? Comunque, oggi è vero. Arf”.
Trova che un artista debba necessariamente essere engagé?
“Non è un obbligo, messa così. Ma per risultare almeno interessante, giusto quel tanto, devi avere qualche cosa da dire, qualche molla interiore, qualche fastidio dell’anima. Sennò cazzo parli a fare?”.
Ha sostenuto di aver abbandonato il fumetto in favore della scrittura. Che differenza c’è, dal suo punto di vista, tra le due forme espressive?
“Non c’è alcuna differenza. Il trucco è mettere le cose in modo da non vergognarsi mai”.
Secondo lei la schiavitù del consenso social può ridurre la libertà espressiva dell’artista?
“Lo chiedi alla persona sbagliata: mi hanno bannato da tutti i social a te noti: non sono stato progettato per inseguire il consenso, per andare a messa, per mettermi in fila al casello. Farsi odiare dalle tribù lo considero un obbligo sublime…”.