Ci sono delle straordinarie coincidenze che talvolta passano inosservate. Eppure hanno cambiato radicalmente la storia delle Nazioni, che poi si potrebbe estendere alla storia del mondo, perché i loro mutamenti, interni e limitati nelle correlazioni e nei rapporti ormai globali con tutte le altre nazioni della terra, hanno cambiato la storia del mondo.

Certo quella inaugurazione del Parlamento del Regno di Italia, quell’enfasi e quella retorica che esaltarono quel 17 marzo 1861 apparve allora poca cosa in uno scenario del mondo e anche in quello dell’Europa che aveva da tempo più grandi e prospere potenze. Era uno staterello di 23 milioni di abitanti, con una dinastia che da poco tempo si denominava Regno di Sardegna, l’unione in solo popolo, in un solo territorio e in una sola lingua letteraria tra un piemontese, un napoletano e un siciliano che non si capivano affatto e per il 78% non sapevano né leggere né scrivere. Fu un passo esaltante perché il coronamento del sogno di tanti patrioti, di Mazziniani e Garibaldini. Restavano ancora fuori Veneti, Romani, Trentini e Triestini.
Questo nostro 160° anniversario celebra anche un altro episodio eclatante, ci lega ad un’altra unità nazionale, di portata ancora più vasta e universale. Oggi gli equilibri politici del mondo sarebbero completamente diversi, dico, senza riserve, di tutto il globo terrestre. Perciò la coincidenza ci esalta per diverso ordine di effetti e per strabilianti parallelismi.
Fu il 12 aprile 1861 il giorno in cui forze confederate bombardarono Fort Sumter. Con questo atto i sette stati Federati, Confederate States of America (CSA), diedero il via alla guerra di secessione americana, diremmo la guerra civile americana. L’episodio divergeva da quello italiano dello stesso anno, 160° ad oggi, in quanto si trattava di una scissione. Ma in entrambi i casi di una guerra civile si era trattato, se anche i Siciliani erano Italiani e come tali furono conquistati dai Mille (più di mille) di Giuseppe Garibaldi. La guerra americana fu più lunga e cruenta e si chiuse soltanto il 13 maggio 1865. Gli Stati Uniti di America avevano vinto. Ecco la portata storica mondiale. Basta pensare quali sarebbero oggi gli equilibri mondiali, se avessero vinto allora i secessionisti.
Tutto era partito dalla vittoria nelle elezioni presidenziali del 1860 dei Repubblicani di Abraham Lincoln con il programma politico che aveva come base la proibizione della schiavitù in tutti i territori degli Stati Uniti, progetto che gli Stati del Sud accolsero come una violazione dei loro diritti costituzionali. I sette Stati Federati, la cui economia si basava sulle piantagioni di cotone con l’utilizzo di schiavi, nel febbraio 1861 si costituirono in Confederazione e si separarono dall’Unione.

Lincoln precisò ai ribelli: «Io non ho intenzione, direttamente o indirettamente, di interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati Uniti, dove esiste. Credo di avere il diritto legale di farlo e non ho volontà di farlo». Tuttavia con il Proclama di emancipazione rese l’abolizione della schiavitù un obiettivo della guerra. Lo scotto di questa guerra industriale, tra un Nord industrializzato e un Sud agricolo, tra due antitetiche visioni della formazione del capitale produsse tra i 620.000 e i 750.000 soldati caduti, con un numero mai calcolato di civili, si stima il 10% di tutti i maschi degli Stati del Nord tra i venti e i quarantacinque anni e il 30% di tutti i maschi del Sud tra i diciotto e i quarant’anni. Si scontravano due microcosmi che avevano un’opposta concezione politica e valori etici e strutture sociali diverse sostenuti da un forte campanilismo e soprattutto dalla propaganda abolizionista che era lotta politica più che di principi. A queste diverse economie e strutture socio-economiche si diede il nome di sezionalismo, a cui corrispose una politica di protezionismo al Nord. I simboli che li rappresentarono l’unionista Billy Yank e il confederato Johnny Reb, in entrambi il razzismo fu questione marginale.
La storia è certo nota a tutti gli Americani. Quello che mi preme rievocare sempre in margine ai parallelismi e alle relazioni tra USA ed Italia è un episodio per noi strabiliante.

Nel luglio del 1861 con la disfatta di Bull Run le cose si erano messe male per Lincoln. Perciò ebbe un’idea strabiliante, per noi al limite del surreale. L’8 settembre giungeva a Caprera, il caput mundi, da Garibaldi, moderno Cincinnato pastore dopo l’incontro di Teano e l’umile ‘obbedisco’ al re sabaudo e la ferita di Aspromonte, con una nave militare Henry Shelton Sanford, ambasciatore in Belgio, latore di una lettera riservata di Lincoln. L’aprì davanti a Shelton che nelle sue memorie annotò che l’eroe ne fu lusingato: Lincoln, su suggerimento dell’ambasciatore a Torino P.H. Marsh, gli offriva il comando di una parte dell’esercito unionista, il grado di maggior-generale dell’esercito degli Stati Uniti (il più alto che si potesse attribuire a uno straniero) «con la cordiale approvazione dell’intero popolo americano», ansioso e onorato di mettersi «agli ordini del Washington d’Italia».
Nonostante i postumi della ferita ricevuta dai Bersaglieri ad Aspromonte e la perenne tortura dell’artrite, in vista di altri necessari progetti italiani, l’eroe dei Due Mondi sperò in un veto di Vittorio Emanuele II (Nonostante, prima di risolvermi, ho creduto mio dovere d’informarne la Vostra Maestà e sapere se crede che io possa ancora avere l’onore di servirla). Questi, forse felice di liberarsi di un personaggio scomodo, concesse invece il suo assenso (faccia quel che gli ispira la sua coscienza, che è sempre il solo giudice in affari di sì grave momento. Qualunque sia la decisione che prenderà, sono più che certo che non dimenticherà la cara Patria italiana che è sempre a capo dei suoi come dei miei pensieri”).
A questo punto non restò a Garibaldi che ribadire i principi umanitari che erano stati gli ideali mazziniani. Sicuro nei proclami abolizionisti di Lincoln, si offrì a due condizioni: una era la linea dell’immediata abolizione della schiavitù dei neri, la proclamata “emancipazione della popolazione nera”; la seconda certamente grave, se non impossibile per uno straniero, il comando non di una armata, ma di tutto l’esercito. Qui tutto finì in sordina e per tante ragioni di convenienza. Dalle risultanze le condizioni erano razionalmente entrambe inaccettabili. Perché Garibaldi le aveva così poste? Fu delirio di onnipotenza o un modo per smarcarsi? Certo per Lincoln c’erano non per ultime le reazioni dei cattolici irlandesi e polacchi contro un nemico del Papato. Ma questo era noto anche prima. Tutto sfumò come una bolla di sapone, nonostante il delirio della stampa americana alla notizia dell’arrivo del “cavaliere dell’umanità”.

Altro contatto si ebbe il settembre del ’62, da parte del console americano Theodore Canisius, amico fraterno di Lincoln, al quale rispose: «sarà giunta l’occasione favorevole nella quale potrò soddisfare il mio desiderio di servire la Gran Repubblica Americana, di cui io son cittadino, e che oggi combatte per la libertà universale». Anch’esso sarebbe sfumato per questioni di orgoglio personale per l’incarico affidato a Marsh.
Il 6 agosto 1863 gli avrebbe inviato una lettera, “come un altro tra i figli liberi di Colombo” in cui lo elogiava come “un vero erede dell’insegnamento datoci da Cristo e da John Brown” e concludeva: «È l’America, lo stesso paese che ha insegnato libertà ai nostri antenati, che ora apre un’altra solenne epoca di progresso umano. E mentre il vostro tremendo coraggio stupisce il mondo, ci viene tristemente ricordato come questa vecchia Europa, che può anche vantare una grande causa di libertà per cui lottare, non abbia trovato la mente o il cuore uguali a voi.».
Eppure il tricolore italiano e qualche camicia rossa splendettero tra la Legione italiana del 39° reggimento di fanteria nordista New York con il nome di “Guardia Garibaldi”, anche se una Legione Borbonica con sette navi (Charles Jane, Utile, Olyphant, Franklin, Washington, Elisabetta Monroe) giunse a New Orleans e si arruolò nell’armata sudista del generale Lee. Come aveva detto forse Cavour, “fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”. In America si certificò che non esistevano. Con qualche dubbio che non esistano ancora tra leghe e nordismo, se la Sicilia non compare neppure nelle previsioni metereologiche e nei colori COVID.
E se il Garibaldi che conosceva bene New York per essere stato a coabitare con il geniale Meucci nel cottage in 420 Tompkins Avenue in Staten Island a fabbricar candele ed altro avesse accettato? Il maestro della strategia militare e l’eroe di tante battaglie con il suo eccezionale carisma avrebbe posto fine alla guerra prima di altre stragi? E lo schiavismo e il razzismo avrebbero preso altra svolta, se fosse stata accettata la sua scommessa, ora che nonostante i proclami di tanti presidenti serpeggia invincibile e si nutre di inutili stragi ed assassini?