Quello del pastore è un mestiere tradizionalmente declinato al maschile. Del resto, nell’immaginario comune, il compartimento della pastorizia evoca da sempre e immediatamente il modello patriarcale, che preserva l’ antica professione e la tramanda di padre in figlio. Sorprenderà molti dunque, sapere che questo mestiere non ha l’esclusiva maschile, né in tanti luoghi d’Europa né tantomeno in Italia, dove a narrare il mondo della pastorizia femminile è Anna Kauber, scrittrice, regista, paesaggista e ricercatrice nell’ambito del paesaggio rurale, che ha tradotto il suo sapere in parole e immagini dando forma al documentario “In questo mondo”. Cento interviste , due anni di viaggio e 17.000 chilometri percorsi a bordo di una panda lungo l’Italia hanno reso possibile la restituzione di un mondo affascinante e a molti ignoto.

Il lungometraggio della Kauber, prodotto da Solares Fondazione della arti e Aki Film, è un affresco coinvolgente e sfaccettato che racconta le storie di donne pastore, che narra la loro quotidianità e i perché della loro scelta. E’ sulle montagne che Anna è andata a trovare le custodi del paesaggio, è lì che ha voluto a parlare con loro, tentando di raccontare la loro quotidianità e i motivi di quella scelta, attraverso la potenza iconica del mezzo cinematografico.
“L’interesse per mondo della pastorizia femminile – racconta Anna Kauber – è giunto in seguito ai miei studi in Architettura del paesaggio, e più nello specifico del paesaggio agrario, che poi è quello in cui gli uomini sono gli attori principali perché ne determinano l’aspetto e la relazione con il sociale. Già negli anni 2012-2013, mi ero occupata di fare ricerca, focalizzandomi sulla specificità di genere in agricoltura e nella trasformazione del cibo; iniziai a indagare cercando di capire se ci fosse una interpretazione femminile di questi temi e già dai primi risultati mi resi che questa specificità nel mondo agricolo esisteva, ed era comprovata anche da statistiche in questo campo: le donne innovano di più, si fanno carico delle varie declinazioni dell’impresa agricola (fattorie sociali, accoglienza etc), hanno un diverso modo di intendere la preservazione e la tutela di ciò che abbiamo e la donazione alle generazioni future. Mi rendevo conto che c’era in atto una femminilizzazione di una civiltà fortemente maschile Non avevo però ancora indagato la donna nel rapporto con la terra attraverso gli animali. All’inizio della ricerca, sapevo già che sarebbe stato molto diverso: il contatto con le agricoltrici era stato più semplice anche perché l’agricoltura è rientrata ormai nei meccanismi di una narrazione ormai consolidata. Il mondo della pastorizia invece è sempre stato più defilato. Quando ho iniziato già nel 2015 con le ricerche e successivamente con le riprese per il documentario, ho trovato presenze pastorali femminili in tutta Italia tranne che in Liguria. Attraverso questo percorso ho riscontrato una grande varietà di situazioni tra le donne dedite alla pastorizia. Si va dall’età ( le più giovani hanno poco più di vent’anni, la più anziana ne aveva 102) all’istruzione: c’è chi possiede una laurea e chi ha una formazione media, chi ha deciso a un certo punto della propria vita di fare questo lavoro e chi ha preso in mano un’occupazione di famiglia. Ho ritenuto opportuno accedere a loro non con una troupe, in una maniera “predatoria” ma sono andata da sola: volevo uno scambio con queste donne che fosse il più naturale possibile. Tramite una lunga rete di conoscenze su tutto il territorio nazionale, ho iniziato ad avere i loro nomi e i loro contatti e quando le chiamavo, cercavo di spiegar loro che non ero una giornalista e che la mia sarebbe stata una ricerca di un altro tipo. La maggior parte di loro, di primo acchito diceva di non avere tempo e io rispondevo loro che non le avrei disturbate: sarei andata al pascolo con loro e la narrazione a un certo punto sarebbe arrivata. Questo documentario è stato soprattutto un lavoro di riconoscimento per loro che custodiscono, preservano e presidiano questi luoghi”.
Anna sapeva che sarebbe andata a incrociare un mondo inedito, poco raccontato ma desiderava avere e fornire una sorta di mappatura, un quadro esaustivo della pastorizia femminile italiana. Nei due anni di viaggio, la studiosa assisteva ogni giorno a una rigenerazione continua della sua ricerca anche grazie all’incontro quotidiano con la natura, con gli animali, con i silenzi della montagna, con tempi vivi del divenire delle stagioni. La pastorizia, a differenza dell’agricoltura che, almeno nelle stagioni fredde dà qualche tempo di tregua, è un lavoro quotidiano intenso che non offre scampo. Durante gli itinerari percorsi, nel corso delle giornate vissute insieme, i racconti delle donne pastore hanno restituito anche la sfera più intima e sottile di ogni vissuto individuale. Protagonista del lungometraggio insieme alle donne è il paesaggio naturale italiano sempre presente con i suoi colori, le sue varietà ,i suoi suoni, i suoi silenzi.
“Il tema che tentavo sempre di approfondire con loro – prosegue Anna Kauber- nonostante io le abbia lasciate ogni volta libere di esprimersi senza indirizzarle troppo, era il rapporto che sono riuscite a instaurare con il proprio mestiere. Le più giovani hanno scelto consapevolmente di farlo, hanno sentito una sorta di richiamo della natura, diverso però da quello afferente al mondo agricolo. Nella pastorizia c’è l’animale e se la natura è la divinità e noi i suoi abitanti, gli animali vanno intesi come i ‘sacerdoti’, in grado di avvicinarci al trascendente, all’indicibile, al mistero della creazione. Non dimentichiamo che poi c’è un altro richiamo importante in questa scelta che è quello della libertà: queste donne sono la testimonianza che esiste un modo di sentirsi libere, ovvero quello di prendersi cura di qualcosa, modo che ribalta un certo paradigma al quale siamo più abituati, ovvero quello che ci suggerisce che la libertà è disimpegno. Le donne pastore più anziane invece non hanno scelto la pastorizia con la consapevolezza delle più giovani , ma attraverso essa hanno avuto anche un riscatto, un ritorno di dignità e di riconoscimento, specie da parte delle comunità di appartenenza, agli occhi delle quali apparivano finalmente come indipendenti, come autonome. Osservandole mi sono resa conto che l’impronta femminile ha apportato un segno particolare anche nell’ambito della pastorizia, quella delle donne è un’impostazione differente maggiormente agita più che declamata”.

L’ecofemminismo, ovvero l’indagine sulla relazione tra donna e terra, in America è un campo di studi molto consolidato sia nel campo della cinematografia ma anche in altre forme artistiche. Il documentario di Anna Kauber, che tra i molti riconoscimenti ha vinto il premio come “Miglior documentario italiano” al 36° Torino Film Festival, “Miglior documentario italiano dell’anno” all’ExtraDocFestival 2019 di Cinema al MAXXI di Roma, il Premio Roberto Gavioli 2018 e il Premio Speciale al 67 ° Trento Film Festival è un lavoro che si inserisce in questo ambito di studi. Un lungometraggio sulla pastorizia femminile narrato al femminile, ovvero con un linguaggio mai assertivo o autoreferenziale, al contrario sempre complice, ricco di quella essenzialità espressiva di chi sta vivendo, da entrambi i lati della videocamera, una esperienza di incontro vera, importante, intensa , felice. I ritratti che emergono da questo documentario sono quelli di donne libere, così autorevoli nella loro autenticità, nella non curanza dell’abbigliamento e dell’aspetto fisico. Da questi ritratti emergono una potenza, una forza, una bellezza che colpiscono profondamente.
“La presenza di donne pastore in altre parti d’Europa – conclude Anna – ha fatto meno scalpore che in Italia. Del resto, in tutte le storie a livello globale che compongono il grande mosaico della Storia, le donne sono state meno raccontate, dunque il fenomeno del non racconto del femminile è un dato. Le donne pastore non fanno numero, non fanno economia e quindi non vengono narrate , nessuno ricaverebbe nulla da questo. Nel caso specifico del mondo della pastorizia e in generale dei mestieri legati alla terra, c’è stato negli ultimi anni un recupero della loro narrazione, a sua volta seguito ad un lungo periodo di rimozione iniziato negli anni ’50, con l’urbanizzazione. Il pastore più del contadino è per antonomasia puzzolente, sporco, percepito come al di fuori della civiltà: ecco un altro aspetto di cui tenere conto quando si parla di mancata percezione del fenomeno. Nonostante siano comunque più numerosi gli uomini nel settore della pastorizia in Italia, un’indagine di genere era necessaria. Nel mio documentario, l’autenticità è reale e non millantata: il racconto che ne è venuto fuori ha attivato quei processi empatici che riducono le differenze e ci fanno sentire tutti più uguali. L’autoreferenzialità nel racconto del cosiddetto ‘ritorno alla natura’ è dannosa e rischia di far naufragare tutto il bello e l’innovativo che c’è in questo campo. Cavalcare l’onda del ritorno alla terra è un errore,per questo ho scelto di non raccontare clichè, di non edulcorare niente, di non fare declamazioni. Non si fanno narrazioni del genere come se fossero favole”.