Imperturbabile fin dalla sua entrata in scena. Distaccato soprattutto nello sguardo, forse la cifra più caratteristica del suo personaggio, che non tradisce emozione alcuna nella propria doppiezza. Ne Il Traditore di Marco Bellocchio, Fabrizio Ferracane veste i panni “eleganti” e complessi dell’infido Pippo Calò, l’amico d’infanzia che pugnala alle spalle Tommaso Buscetta. Protagonista di un indimenticabile confronto in aula con il boss dei due mondi, il cassiere di Cosa Nostra, divenuto capo del mandamento di Porta Nuova a Palermo e poi passato con i Corleonesi di Totò Riina, arriverà a rinnegare persino di conoscere don Masino.
Una performance notevole quella dell’artista castelvetranese che, attraverso piccoli peculiari gesti e dettagli, riesce a dare corposità a un ruolo cruciale, che gli è valso una nomination come miglior attore non protagonista ai Nastri d’Argento. Riconoscimento che, confessa, lo rende “orgogliosissimo”, perché arrivato dopo anni e anni di duro lavoro, in un momento particolarmente felice della propria carriera come attore di cinema, televisione e, prima ancora, teatro.
Cresciuto a Castelvetrano, con in tasca un diploma alla scuola Teatés di Palermo, poco più che adolescente Fabrizio parte alla volta della Capitale, dove tassello dopo tassello conquista credibilità e consensi, calcando i palcoscenici d’importanti teatri e prendendo parte ai set di pellicole italiane e internazionali per la televisione e per il cinema. La sua formazione è costellata d’incontri con artisti come Mimmo Cuticchio, Emma Dante, Danio Manfredini, Marco Martinelli. Il successo presso il grande pubblico arriva probabilmente con la fortunata fiction televisiva Il Capo dei Capi e poi con Squadra Antimafia 2. Tra le sue performance più recenti, quelle ne La Compagnia del Cigno, Prima che la notte e, al cinema, in Anime Nere, L’Ordine delle Cose, Primula Rossa. A Cannes era presente anche con un cortometraggio, Rosso: la vera storia falsa del pescatore Clemente di Antonio Messana, sulla storia del tonnaroto di Favignana Clemente Ventrone, e presto varcherà anche i confini statunitensi con Il Traditore, acquistato dalla Sony per essere distribuito in America. Ma è il teatro a ricondurlo a casa dove, dopo 20 anni di assenza, ha scelto di tornare a vivere e di fondare una propria compagnia teatrale, perché – spiega – “le periferie, i paesi, hanno bisogno di polmoni che respirano arte, teatro, cinema e soprattutto cultura”.
Fabrizio, ci racconti dell’esperienza con Marco Bellocchio? Com’è stato essere diretto dal maestro ne Il Traditore? E in generale quale clima si è instaurato con il resto del cast sul set?
“L’esperienza con Marco… dico Marco adesso, ma solo dopo tanto tempo sono riuscito a chiamarlo per nome, a dargli del tu. Le prime volte gli rispondevo ‘signor Bellocchio’: mi veniva molto difficile non farlo, perché avevo davanti un artista che ho sempre stimato, da cui ho sempre sperato di essere diretto. E finalmente ci siamo riusciti, perché durante questi anni ci siamo sempre un po’ rincorsi. Per Vincere mi fece quattro provini per il ruolo dello psichiatra. Poi lui è venuto spesso a vedermi a teatro, vide altri film in cui recitavo come Anime Nere o L’ordine delle cose di Segre. Finalmente questa volta ci siamo incontrati.

Essere diretti da lui? La prima cosa che mi viene in mente è ‘libertà’: lui ama tantissimo il mestiere dell’attore e lascia gli attori molto liberi di proporre. Allo stesso tempo, insieme si parla molto, si discute. Il giorno prima di girare la scena del confronto Buscetta-Calò, ricordo, abbiamo fatto una riunione perché si trattava una scena importante, ben 11 minuti di ciak. Si lavora molto in costruzione. Il clima sul set, per fortuna, era molto positivo. Mi sentivo a casa. Anche perché il direttore della fotografia era Vladan Radovic, con cui avevo già lavorato in Anime Nere, conoscevo tutta la sua squadra. E stare su un set in cui i tecnici e i direttori della fotografia lavorano per metterti nelle migliori condizioni è straordinario”.
Pippo Calò, nella realtà, è un personaggio complesso da decifrare: conosciuto come il “cassiere di Cosa nostra”, la sua figura si lega anche ad ambienti del terrorismo, P2, Banda della Magliana, e ad alcuni grandi misteri italiani. Nel film, però, il suo ruolo chiave è un altro: dal punto di vista di Tommaso Buscetta il vero traditore è lui, l’amico fidato che arriva a “rinnegarlo” e a uccidere i suoi stessi figli. Come sei riuscito a fare tua questa sua doppiezza e a renderla tangibile?
“Pippo Calò, anche secondo Marco e secondo tante altre persone, è il vero traditore, nel senso che tradisce l’amicizia con Buscetta in maniera pesante, con un comportamento da vigliacchi. A me incuriosiva moltissimo il suo guardaroba, perché si vestiva e tuttora si veste molto bene, anche in carcere ha sempre begli abiti. Così, con la costumista abbiamo fatto un lavoro molto accurato sull’abbigliamento. Ho lavorato poi molto sulla postura, sui gesti, come le gambe accavallate o il modo in cui si abbottonava la giacca, che vidi e mi restò impresso. Il tutto per conferirgli una certa compostezza, una rigidità che poi ho trasportato sullo sguardo. Una cosa che anche a Marco suonava molto bene: spesso mi chiedeva proprio una rigidità, una fermezza nello sguardo”.
Secondo te, che cosa distingue la pellicola di Bellocchio dalle tante produzioni che finora hanno provato a raccontare quella drammatica pagina di storia italiana cui Buscetta diede un contributo fondamentale con le sue dichiarazioni?
“Intanto, era la prima volta che Marco si avvicinava a un film di mafia e arrivarci a 80 anni può soltanto arricchire la pellicola della sua saggezza ed esperienza, infatti il film ha tutto di Bellocchio. Poi, per quel che mi riguarda, tanti anni fa ho partecipato alla fiction Il Capo dei Capi: lì, come in molti altri prodotti per la televisione, si ha una maggiore tendenza alla spettacolarizzazione, dagli omicidi ai traffici di droga. Qui, si va decisamente più dentro l’umano”.
Dopo il mancato riconoscimento a Cannes, dove comunque vi sono stati tributati 13 minuti di applausi, per Il Traditore arriva il record di nomination mai ricevute da un film ai Nastri d’Argento: ben undici, e una è proprio la tua, quella a “miglior attore non protagonista”. Te la aspettavi? E come la vivi? Peraltro, la premiazione si terrà a Taormina, su un palco importante nella tua Sicilia…
“A Cannes non è arrivato nessun premio, è vero, ma secondo me il premio meraviglioso è ciò che è successo appena è finita la proiezione del film, a partire dai 13 minuti di applausi. Il film, fin da subito, ha avuto un impatto straordinario, forte, sulle persone. Per due ore e venti minuti il pubblico è rimasto incollato allo schermo, perché è una storia che – sembrerà una frase fatta – ti porta per mano: almeno a me ha dato questa sensazione. Tante nomination ai Nastri, e sì, una è anche la mia, insieme a quella di Luigi Lo Cascio, e questa è una cosa che mi rende orgogliosissimo.
Perché cose come questa sembrano quasi piovere dal cielo. Ricordo sempre il primo anno in cui mi sono trasferito a Roma: non sapevo neanche dove andare per trovare lavoro, non sapevo dove formarmi. Avevo fatto solo la scuola di teatro a Palermo, e ricordo ancora le parole di mio padre che mi diceva: ‘Io non ti posso aiutare, io faccio il fisioterapista, non so com’è questo mondo. Posso dirti soltanto che se stai male, ti prendo un biglietto aereo e te ne torni a casa. Però, io ti consiglio di provarci e di stare lì’. Questo per dire che tutto quello che mi sta arrivando me lo sono sudato e creato da me.
E quindi la nomination ai Nastri, già ne avevo avuta una con Anime Nere, per un film in cui faccio un personaggio completamente diverso, mi rende orgoglioso, perché il mio mestiere di attore viene riconosciuto, perché l’attore diventa tante cose e io sono felice di sapere che queste ‘cose che divento’ sono credibili. Taormina, casa mia in Sicilia, sì, sarebbe bello…”.
Hai una solida esperienza come attore teatrale, ma negli ultimi anni ti sei affermato anche su piccolo e grande schermo, spesso in film “impegnati”, molti legati alle mafie. Tu sei di Castelvetrano, cui i media fanno spesso riferimento come “città di Messina a Denaro”. Ritieni che questa tua provenienza abbia influenzato le tue scelte come attore? Senti una qualche responsabilità civile nel far conoscere al pubblico determinate storie?
“No, il fatto che io sia di Castelvetrano non ha influito minimamente nelle mie scelte. Castelvetrano del resto è una città di gente perbene, onesta, che lavora e che ama un territorio in cui ci sono delle cose meravigliose. Certo, abbiamo anche la mafia, ma la mafia esiste ovunque. Nei palazzi del potere, a Milano, in Germania, ovunque c’è il malaffare, purtroppo. Sicuramente fare conoscere le storie ai giovani è una cosa importante, assolutamente sì. Le storie vanno conosciute, vanno viste. Spesso mi dicono: ‘ma perché sempre mafia, mafia, mafia?’. Tutto dipende da come queste storie le si affronta.
Maggio è stato un mese importante per te: oltre all’evento del Festival di Cannes, giovedì 30 è uscito nelle sale un altro film che ti vede protagonista, Primula Rossa di Franco Jannuzzi, girato e prodotto a Messina, che affronta una tematica mai scontata quale quella degli ospedali psichiatrici giudiziari intrecciandosi con avvenimenti storici cruciali. Ce ne vuoi parlare?

“Anche questa è una storia importante, che dev’essere raccontata. Perché parla degli Opg e di quello che una volta erano. Un film di Jannuzzi, scritto da Massimo Barilla. Io ho soltanto una piccola parte, quella di uno degli internati. Mi sono divertito molto a interpretarlo e poi ho lavorato al fianco di Salvatore Arena, un attore che stimo tantissimo”.
Qual è il tuo rapporto con la Sicilia? E in quali altri aspetti, magari poco indagati finora, ti piacerebbe vederla raccontata?
“Il mio rapporto con la Sicilia è perenne, perché dopo vent’anni a Roma sono tornato a vivere giù, ho scelto di vivere in Sicilia perché da 7-8 anni ho fondato la mia compagnia teatrale con Rino Marino, con cui abbiamo il nostro spazio a Castelvetrano: lì proviamo, facciamo gli spettacoli, spesso organizziamo anche dei laboratori. È importante stare lì, fare questi lavori lì, perché le periferie, i paesi, hanno bisogno di polmoni che respirano arte, teatro, cinema, e soprattutto cultura. La cultura è fondamentale.
La Sicilia si racconta. Peraltro quest’anno sono stato a Cannes anche con un cortometraggio, Rosso: la vera storia falsa del pescatore Clemente di Antonio Messana, giovane regista di Trapani che studia alla scuola La Fémis di Parigi. Un corto che tratta della storia di Clemente Ventrone, storico tonnaroto di Favignana. La Sicilia può essere raccontata nelle sue bellezze come nelle cose che non funzionano, o che funzionano. Mi viene in mente ad esempio il centro d’eccellenza per le protesi che ha sede a Enna. Ma anche attraverso i suoi eroi, che sono un po’ ovunque”.
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