È difficile immaginare cosa sarebbe stato il teatro della danza dell’ultimo quarantennio, ma anche il teatro tout court, senza la paradigmatica esperienza e creatività di Pina (Philippine) Bausch, nata a Solingen, in Germania, l’11 luglio 1940 e prematuramente scomparsa a Wuppertal il 30 giugno 2009 (stava per compiere 68 anni !). Questa coreografa dall’inconfondibile silhouette nera e dall’effigie esangue, ma in realtà potente ed energica capofila del genere teatrodanza (o Tanztheater) è riuscita a modificare gli orizzonti culturali ed estetici della danza del nostro tempo, guadagnandosi non solo una schiera di imitatori ma anche un pubblico insospettabile: forse il più largo e nuovo che qualsiasi altro coreografo abbia attirato a sé, almeno in Europa.
Comprensibile che il Vecchio Continente abbia iniziato a celebrare il suo decennale sin dall’anno scorso, assecondando la call “Join! The Nelken – Line” della Pina Bausch Foundation, diretta da Rolf Salomon Bausch. Camminando in fila indiana semplici cittadini e amatori di molte città non solo italiane hanno così ricostruito e ancora ricostruiranno svariate Nelken Lines, in cui precisi gesti raccontano l’avvicendarsi delle quattro stagioni, proprio come in Nelken spettacolo del 1982, cosparso in scena di garofani sempre freschi ad ogni recita. Per ricambiare, il figlio della coreografa ci ha regalato l’inattesa sorpresa dell’apertura dell’archivio online cui subito si accinse a lavorare dopo la scomparsa della madre. L’enorme e completa eredità, disponibile a studiosi e non solo, comprende 9000 video e 200.000 fotografie: dall’ultimo pezzo “…como el musguito en la piedra, ay sí, sí, sí…”- dedicato al Cile e al rimpianto per il compagno Ronald Kay, raffinato letterato cileno che le era stato accanto per quasi trent’anni, vigile, sempre dietro le quinte, ma che, in quel 2009, la stava per lasciare -, su su sino alle prime creazioni, come Im Wind der Zeit (1969), primo premio al Concorso coreografico di Colonia.
Destino crudele e persino beffardo in fin di vita, ma generoso all’inizio della carriera: nel 1973, su invito del sovrintendente Arno Wüstenhöfer, Pina accettò la direzione della compagnia di balletto di Wuppertal, ben sapendo che l’avrebbe battezzata Wuppertaler Tanztheater, utilizzando lo stesso termine d’uso – “teatro della danza” dei suoi colleghi coreografi, come lei ingaggiati, in quegli stessi anni Settanta, in grandi strutture e teatri d’opera della Germania dell’Ovest. Tutti cresciuti nell’alveo dell’Espressionismo della Folkwang Hochschule di Essen e di Kurt Jooss, il suo più famoso divulgatore, oppure con Mary Wigman, la campionessa dell’Ausdruckstanz (o danza d’espressione), questi artisti erano decisi a segnalare la diversità della loro offerta rispetto a quella delle nuove compagnie di balletto imposte in tutto il Paese da una politica culturale post-Olocausto tutta tesa ad allinearsi all’American way of life dei vincitori.
Pina, apparentemente timida, riservata, e poco eloquente se non dopo qualche bicchiere di vino e una cena festosa, non espresse mai opinioni politiche antiamericane. Anzi, dal suo soggiorno di quasi quattro anni a New York, guadagnato nel 1959 grazie a una borsa di studio che di lei fece anzitutto una “special student” alla Julliard School of Music, ma non solo, tornò, nel 1962, con la convinzione che la danza tedesca non avesse ancora raggiunto la perfezione di quella americana. Era però ben consapevole di appartenere al ceppo espressionistico e alla grande ricerca sulla danza libera, interiore e spirituale di Rudolf von Laban, di cui Jooss era stato allievo. Proprio come Jooss, il suo talent scout, Pina, a Wuppertal, si mise alla ricerca di un suo linguaggio che corrispondesse all’idea di “avvicinare la danza alla vita” e di trasformare i danzatori in “persone danzanti”: giacca e pantaloni per gli uomini; sottovesti, ma soprattutto lunghi abiti da sera per le donne. Impresa difficile e che forse non le sarebbe riuscita se non avesse avuto accanto lo scenografo Rolf Borzik, e tre danzatori – il ceco Jan Minarik, e i francesi Malou Airaudo e Dominique Mercy – che la spronarono a iniziare il suo lungo e faticoso cammino, rinunciando a danzare in prima persona.
Borzik, il marito scomparso nel 1980, mutò per lei lo spazio scenico; lo riempì di elementi naturali come le fascine nell’opera-ballo Orpheus und Eurydike di Gluck (1975), di terra umida e odorosa nella sua infuocata e rituale Sagra della primavera pure del 1975; di foglie secche e fruscianti nell’androne di Blaubart (1976) e di tavoli e sedie in Café Müller, la Gasthaus della memoria autobiografica della coreografa, figlia di un oste, e che qui comparve eccezionalmente (lo fece ancora, ma solo anni dopo, in Nur Du) con le lunghe braccia fluenti e ossute e gli occhi chiusi come il fantasma di un altrove. Anche Federico Fellini, che per lei aveva una predilezione, la volle nel suo film E la nave va nel brevissimo ma incisivo ruolo della principessa Lherminia, non vedente.
Primo debutto italiano assoluto, accolto, nel 1981, al Teatro Due di Parma da freddo sarcasmo, proprio Café Müller spiega, tra l’altro, come il successo planetario di Frau Bausch fosse tutt’altro che immediato. Se Arlene Croce, nel 1984, titolava “Bad Smell” una delle sue più livide stroncature sul “The New Yorker” contro tutta la produzione di Wuppertal, l’accoglienza a Bochum del toccante Er nimmt sie an der Hand und führt sie in das Schloss, die anderen folgen, una versione soggettiva del Macbeth (1978), che infatti ha il titolo di una lunga didascalia, si risolse in un fallimento. D’altra parte il Tanztheater Bausch cominciò a essere compreso nel 1985, complice il lungo festival dedicatole dalla “Fenice” di Venezia e occasione per svelare quel nuovo metodo di lavoro che nasceva sì dall’improvvisazione dei danzatori, ma non da movimenti e passi, bensì da veri e propri “questionari”. Istigando la sua troupe, nel frattempo diventata internazionale, Bausch finì per sostituire le partiture compiute (a esempio Stravinskij per La Sagra della primavera) e i testi drammatici (come Macbeth) delle sue prime pièces ancora d’impianto tradizionale, con un variegato collage di risposte a domande quali: “Da piccolo avevi paura del buio?”, “Cosa fai quando ti piace qualcuno?”, “Qual è il tuo maggiore complesso fisico?”. Il risultato eclatante della sovvertita pratica coreografica non consistette, però, solo nell’entrata in scena di urla, gesti sonori, canti, parole e musiche classiche ma anche di riporto.
Gli spettacoli degli anni fine ’70 e‘80 come Kontakthof (1978) “luogo dei contatti amorosi”, poi regalato, nel volgere del terzo millennio, a una troupe di anziani amatori/dilettanti e trasformato in un affresco di affetti al tramonto della vita; oppure Bandoneon, in cui si balla il tango stando seduti, o Auf dem Gebierge hat Man ein Geschrei gehört, riempito di altissimi pini veri e ancora Arien, sommerso d’acqua,ci permettono di rivivere sogni e visioni d Pina. Essi lasciavano trasparire, entro “montaggi”coreografici non meno che perfetti, quanto l’artista avesse saputo dolorosamente scavare nella psiche dei suoi performer, restituendogli una gestualità senza maschere e una padronanza totale nel ricostruire le anomalie del vivere sociale, l’irrisolta battaglia tra i sessi, lo sgretolamento dei valori più saldi della generazione successiva all’Olocausto, in un corollario di vizi e virtù umane del popolo tedesco ma non solo, esposte non senza una potente patina di divertimento e di ironia.
Basti pensare a quei trionfali “passi à la Bausch”, ritmati e a larghe volute, con i quali ha tanto spesso spedito (come in 1980, morbido ma agrodolce party dal sapore hollywoodiano)i suoi fedelissimi tra il pubblico, in una manovra di avvicinamento alla non-fiction, sempre più insistente e fisica, e capace di trasformare la sua prima, indimenticabile troupe in una sorta di “famiglia”, dai performer riconoscibili. Un piacere ritrovarli con le stesse ossessioni, le piccole manie o paure di volta in volta ripetute in qualche nuovo Stück o pezzo di vita…
Errate interpretazioni del suo metodo di lavoro hanno tentato di inserirla nel mondo del teatro. In realtà, la Bausch ha sempre preferito essere accostata alla musica. In una nostra, indimenticabile conversazione pubblica, si autodefinì “una compositrice di danza”, e fece risalire l’idea di sottotitolare i suoi lavori Stücke, alla tradizione musicale romantica delle Variazioni su di un unico tema, che per lei era irrinunciabilmente la vita. Nell’arco creativo che corre da 1980 a Palermo, Palermo, il profetico spettacolo del 1989 con un grande muro iniziale che crolla, come davvero capitò poco dopo a Berlino, la grande coreografa aveva creato, nella sala prova di Wuppertal, il suo teatrodanza maggiore. Tuttavia è pur vero che sin da Viktor (1987), ispirato a Roma, si era concessa il vezzo molto tedesco del viaggio goethiano esotico e ricognitore. La creazione a getto continuo di scenografie ormai, da tempo, non più di Borzik, ma dell’inseparabile Peter Pabst, contribuì ad alimentare la trasognata spettacolarità di nuovi Stücke : a Madrid, Vienna, Los Angeles ( Nur Du,1996), Hong Kong (Der Fensterputzer, 1997) e Lisbona (Masurca Fogo, del 1998, inserito dall’amico regista Pedro Almodóvar nel film Parla con lei ) e ancora Roma (O Dido, 1999), il Brasile (Agua, 2001), Istanbul (Nefés, 2003) e l’India (Bamboo Blues, 2007).
Tuttavia, con la perdita di alcuni suoi danzatori storici e l’ingresso di giovani leve, più desiderose di muoversi che non di essere psicoanalizzate, giunsero le scenografie virtuali: oceani in tempesta, foreste tropicali, popoli indigeni, natura debordante. Immagini forti, un po’da agenzia turistica, accompagnate da un andirivieni quasi ininterrotto di assoli soprattutto femminili, e senza troppe parole. Pina fu accusata di leggerezza, e facile allegria, ma lei che in passato aveva saputo usare il pungolo della critica sociale, lanciata come un ipersensibile radar a 360 gradi sull’umanità intera, ora riteneva che ormai l’unica salvezza in un mondo in declino, fosse nella sola danza e in una musica a collage elettrizzante. Non a caso Wim Wenders, titolò il documentario in suo omaggio non solo Pina, ma anche Tanz,Tanz sonst du bist verloren (danza, danza altrimenti sei perduto).
Purtroppo questo motto dell’ultima Pina, e che Nietzsche avrebbe sottoscritto, pare non sia servito a preservare la tranquillità del Wuppertaler Tanztheater. Stretto tra intrichi politici e legali, l’istituzione combatte tra l’idea di una compagnia- museo, oppure aperta a nuovi coreografi. Vanta una direttrice cacciata, Adolphe Binder, ma che potrebbe rientrare, e Bettina Wagner-Bergelt, una nuova leader che porterà a Parigi, a fine giugno, sia Bon Voyage, Bob del giovane norvegese Alain Lucien Ǿyen, sia il magnifico Seit Sie o Since She del greco Dimitris Papaioannou, voluti dalla Binder. Poi un fitto calendario europeo proseguirà sino alla fine del 2020, con la ripresa degli Stücke maggiori, alcune rarità come I sette peccati capitali (1976) e tra aprile e maggio, farà ideale ritorno sul campo degli scempi siciliani di Palermo, Palermo a Los Angeles, Berkeley e Chicago. Intanto Rolf Salomon Bausch ha già deciso di allestire, nel maggio 2020, con una troupe di danzatori solo neri, La Sagra della primavera, prima destinazione il Sadler’s Wells di Londra. Sua madre riposa nel fiorito cimitero di Varresbeck, un quartiere lontano dal centro di Wuppertal; sulla sua tomba fiori meravigliosi, sempre freschi.