Quando Mahmood sale sul palco della finale dell’Eurovision, ospitata da Tel Aviv, e dopo la strofa tutta la sala stampa intorno a noi inizia a battere le mani a tempo, iniziamo a crederci per davvero. Iniziamo a unire i puntini, come in un cruciverba senza parole: la gente intorno al desk dei giornalisti italiani che canticchiava “Soldi” durante tutto il pomeriggio, il collega a pranzo che avendomi sentito parlare in italiano mi aveva avvicinato con un “allora, siete pronti per vincere stasera?”. Iniziamo a viaggiare nel futuro: adesso vinciamo, ci facciamo la notte in bianco a festeggiare e raccontare, l’anno prossimo ci portiamo a Milano l’organizzazione dell’evento non sportivo più seguito al mondo.
Arrivano i punti dei diversi Stati, Mahmood dalla green room, da dove i cantanti assistono all’aggiornarsi costante della classifica, inizia a rilassarsi. Ogni volta che riceve i 12 punti – il riconoscimento massimo da parte di uno Stato – sorride, applaude, dice “Bomba”.
Noi sudiamo come fosse l’orale del nostro esame di maturità, molto peggio di Sanremo. Come se Mahmood fosse nostro fratello in gara, il nostro migliore amico, la nostra identità, il nostro essere italiani. Come se Mahmood fosse noi.
Ai voti delle diverse giurie dei Paesi partecipanti va unito il Televoto, che ha il potere di stravolgere tutto. Il Televoto porta fuori dai giochi la Macedonia, che con un brano dall’impostazione classica era stata prima in classifica per lunghissimi minuti. Il sogno si infrange e osa arrivare ottava.
Stessa sorte per la Svezia, rischia fino all’ultimo secondo di vincere ma John Lundvik, con un’ottima performance dal sapore gospel, finisce sesto.
E’ la magia del sistema di voto misto dell’Eurovision: stai per toccare il podio con la punta delle dita e te lo vedi scivolare per sempre dalle mani.

Sappiamo che Mahmood non vincerà più abbastanza presto ma a piccoli passettini costanti restiamo stabili e consistenti e ci portiamo a casa un dignitosissimo secondo posto che neppure l’allora favorito Francesco Gabbani era riuscito a regalarci nell’edizione dell’Eurovision del 2017.
Vince l’edizione 2019 dell’Eurovision di Tel Aviv il super favorito Duncan Laurence dell’Olanda con il pezzo romantico dal titolo “Arcade”, quello che viene nominato nei corridoi a partire dal primo giorno se chiedi a chiunque “Ma quest’anno chi vincerà”. Vince con un’esibizione pulita e incorniciata solo dalla sua performance al piano (spento, visto che l’Eurovision è tutto playback) e un faro dietro a mostrarlo in controluce. Il ritornello recita “Loving you is a loosing game” e non può non tornarci in mente il richiamo ad Amy Winehouse, anche se la vicinanza non è che testuale.
Resta l’amarezza, il talento, la speranza di un ragazzo, il nostro Alessandro, che in meno di un anno sta scalando festival e classifiche, con un appeal che anche all’estero, ora ne abbiamo la prova concreta, conquista.
Ed è proprio all’estero che Mahmood sta già guardando, prima di archiviare questa bellissima esperienza: “Nei primi giorni di giugno andrò a scrivere dei brani al Midem di Cannes insieme con altri autori francesi, tedeschi e di altre nazioni – ha dichiarato il giorno della finalissima – e spero che questo sia un bell’esempio di connessione fra artisti e uomini di vari Paesi”.
Alla vigilia delle elezioni europee, detto da un artista che crede fortemente in un’Europa unita soprattutto sotto il nome della musica, pare essere un messaggio di buon auspicio. “In the name of love” come avrebbero cantato gli U2 o meglio, come ha ricordato anche Madonna proprio nella sua performance durante la finale: “Music makes the people come together. Yeah”.
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