Un giorno Zeus, osservando dall’alto dell’Olimpo la Terra, vide che era abitata da animali e da uomini, ma questi trascorrevano la loro esistenza miseramente nascosti in tane e grotte dalle quali uscivano solo di notte, in cerca di cibo, pieni di paura gli uni degli altri. Zeus chiamò così Epimeteo, figlio del Titano Giapeto, affinché scendesse sulla Terra e donasse a questi esseri ciò di cui avevano necessità. Epimeteo, il cui nome in greco deriva da “epí “, “dopo”, e “métis”, “intelligenza”, noi diremmo, “che arriva dopo”, si dimenticò degli uomini, badando, invece, a tutte le altre creature. Di questa grave lacuna si accorse suo fratello, Prometeo, dal greco “prό”, “prima”, e ancora, “métis” “intelligenza”, in inglese “intelligence”, il più avveduto tra i Titani.
Egli, che amava moltissimo il genere umano, sottrasse il fuoco ad Efesto il quale, nella sua officina, forgiava i fulmini per Zeus. Il padre degli dei si rese conto del misfatto e incaricò proprio Efesto di incatenare, su una rupe del Caucaso, Prometeo che avrebbe sofferto la fame, la sete, il gelo, mentre un’aquila avrebbe quotidianamente divorato il suo fegato che di notte sarebbe poi ricresciuto. Eracle, impietosito da tale martirio, con il permesso del padre Zeus, massacrò l’aquila e spezzò le catene di Prometeo. Ma il Titano desiderò restare comunque sul Caucaso affinché tutti i mortali ricordassero per sempre la sua generosa impresa.
Non ci siamo mai chiesti per quale ragione rimaniamo incantati sin dalla più tenera età dai miti greci? Non solo perché in loro sono presenti vicende che superano anche la fantasia più sfrenata, ma anche perché sono terribilmente attuali. Fin dagli albori l’uomo ha cercato di spiegare attraverso i miti quello che poteva apparire incomprensibile. Se oggi volessimo incontrare la figura che meglio rappresenta l’uomo moderno, dovremmo rivolgerci proprio a Prometeo, il titano che sfidò Zeus per sottrargli il fuoco e donarlo agli uomini. Il personaggio cadde, quindi, in quella che era la colpa più grave per gli antichi Greci: la “tracotanza” ovvero il ”superamento dei propri limiti”, in Greco “hybris” dalla preposizione “ hypér” “oltre, al di là”, in inglese “arrogance, haughtiness, conceit”.
Gli dei non permettevano che un mortale oltrepassasse quella linea invisibile che teneva separati e distanti il mondo metafisico da quello reale e, qualora questo incauto passaggio fosse avvenuto, in loro sarebbe scattata la “fthόnos theόn”, quella che è erroneamente tradotta come “invidia degli dei”, in realtà dovrebbe essere intesa per coerenza come “malevolenza degli dei”, in inglese “malevolence”, proprio perché non si può invidiare chi è inferiore a noi, ma il contrario. L’uomo, per sua natura finito, tende da sempre all’infinito e a ribellarsi a regole che gli impongono di rimanere nella sua condizione. Pensiamo ,pur con il massimo rispetto verso il progresso scientifico e la più grande riconoscenza, ad esempio, all’eutanasia, alla clonazione, alla fecondazione assistita: al di là delle convinzioni etico-religiose soggettive, che devono essere massimamente rispettate, al di là del progresso scientifico difronte al quale dobbiamo inchinarci, è necessario ammettere che nell’uomo è sempre presente la spinta ad affrancarsi da una dipendenza superiore e ad essere l’unico vero artefice della propria vita. Il progresso, dal tragediografo Eschilo (525 a.C./456 a.C.), autore de “Il Prometeo incatenato”, in avanti, è un tema che ha sempre affascinato tutti i poeti, i letterati, gli artisti, i filosofi di ogni tempo: pensiamo a Giacomo Leopardi il quale, ne “La ginestra”, 1836, descrive il progresso come una ridicola e tragica sconfitta.
“Dipinte in queste rive/ Son dell’umana gente /Le magnifiche sorti e progressive/ Qui mira e qui ti specchia/ Secol superbo e sciocco,/Che il calle insino allora/Dal risorto pensier segnato innanti/Abbandonasti, e volti addietro i passi,/Del ritornar ti vanti,/E proceder il chiami”.
In età romantica, addirittura, avviene l’apoteosi di questa inclinazione innata nell’uomo: l’esistenza è concepita come inquietudine, ansia, aspirazione, brama di qualcosa che è oltre, superamento del finito. Da tale condizione psicologica nasce l’ideale del “titanismo”, un atteggiamento di ribellione rispetto ai valori tradizionali. Il titanismo di oggi è diverso da quello romantico perché l’uomo moderno, essendo consapevole che, nella sua ascesa oltre i limiti umani, andrà incontro ad un fallimento inevitabile, si appoggia sulla scienza e sulla tecnica, proprio come aveva fatto Prometeo, rubando il fuoco.
Il fuoco, quindi, nel mito di Prometeo, rappresenta un mezzo (proprio come oggi la scienza e la tecnica) per raggiungere il progresso. Ma da dove deriva la parola “progresso”? Dal verbo latino “progrédior“ “vado avanti, procedo”, ma l’”andare avanti” coincide effettivamente con l’”andare in alto” ? Sì, ma nella misura in cui il progresso coincide realmente con il bene dell’uomo. Se questo non si verifica, allora l’uomo non trova più senso in nulla, proprio come Prometeo era devastato nelle proprie membra. Che ben venga, allora, il progresso, ma per il bene, non per la distruzione dell’uomo.
Un altro rischio è quello del narcisismo: ogni interesse è proiettato solo e unicamente verso se stessi. Narciso, come racconta il poeta Ovidio (43 a.C./18 d.C.) nelle “Metamorfosi”, era un giovane di incomparabile bellezza, amato da giovani e fanciulle. Egli, però, non si curava di nessuno e trascorreva le giornate nella solitudine dei boschi, cacciando. Un giorno, l’ennesimo pretendente rifiutato chiese agli dei che Narciso fosse punito e così Nemesi, dea della vendetta, accolse la richiesta. Narciso, stanco per le attività di caccia, si fermò presso una fonte per rinfrescarsi e, vedendo la propria immagine riflessa nello specchio d’acqua, se ne innamorò perdutamente al punto da rifiutare di nutrirsi e da lasciarsi morire a causa dello struggimento per questo amore impossibile. Il corpo del giovinetto scomparve e al suo posto nacque un fiore che prese il suo nome.
Concludo con il celeberrimo I stasimo dell’ ”Antigone” di Sofocle:
“Molte meraviglie vi sono al mondo,
nessuna meraviglia è pari all’uomo.
Quando il vento del Sud soffia
in tempesta, varca il mare
bianco di schiuma e penetra
fra i gorghi ribollenti;
anno dopo anno rivolge,
con l’aratro trainato dai cavalli,
la più grande fra le divinità,
la Terra infaticabile, immortale.
E gli uccelli spensierati,
gli animali selvatici,
i pesci che popolano il mare,
tutti li cattura, nelle insidie
delle sue reti ritorte,
l’uomo pieno d’ingegno;
e con le sue arti doma le fiere
selvagge che vivono sui monti
e piega sotto il giogo
il cavallo dalla folta criniera
e il vigoroso toro montano.
Ha appreso la parola
e il pensiero veloce come il vento
e l’impegno civile; ha imparato
a mettersi al riparo
dai morsi del gelo
e dalle piogge sferzanti.
Pieno di risorse, mai sprovvisto
di fronte a ciò che lo attende,
ha trovato rimedio a mali
irrimediabili. Solo alla morte
non può sfuggire.
Padrone assoluto
dei sottili segreti della tecnica,
può fare il male
quanto il bene.
Se rispetta le leggi del suo paese
e la giustizia degli dèi,
come ha giurato, nella città
sarà considerato grande;
ma ne sarà cacciato
se per arroganza
lascerà che il male lo contamini.
Spero che un simile individuo
non si accosti al mio focolare,
non condivida i miei pensieri”.