Vincitore del Premio “Venezia Classici per il Miglior Documentario sul Cinema” alla Mostra Internazionale D’arte Cinematografica di Venezia (2017), del David di Donatello 2018 nella sezione Miglior Documentario e del Nastro D’argento “Documentari 2018”. Incluso, fra gli altri, nella programmazione del Bif&st di Bari e del Jeonju International Film Festival di Seoul, il documentario La lucida follia di Marco Ferreri (Marco Ferreri: Dangerous But Necessary in inglese) ha tutte le carte in regola — e anche di più — per dar lustro al programma di Open Roads 2018. E se poi siamo di quelli che non si lasciano influenzare da premi e partecipazioni e giudicano l’opera nuda e cruda, be’, il film di Anselma Dell’Olio si guadagna comunque, e a tutti gli effetti, il posto in programma. E non solo per la godibilità e l’esaustività dell’opera, ma anche per la duplice operazione di divulgazione e conservazione del lavoro del regista che Dell’Olio ha realizzato.
Spiace constatare che le generazioni nate verso la fine degli anni ’70, per non parlare poi di quelle successive, sappiano poco o nulla del lavoro di Ferreri. Nel migliore dei casi hanno visto o sentito parlare de La grande abbuffata, sanno vagamente che il suo cinema si discosta da quello dei mostri sacri dell’epoca — Fellini, Rossellini, Antonioni — e che magari sfida l’ordine costituito e certi tabù imposti dalla società del tempo, ma non conoscono la maggior parte della sua vastissima filmografia. Non hanno idea di quanto profonde e spesse siano le pieghe metaforiche che avvolgono i suoi lavori, quanto visionario sia il suo sguardo. Il documentario di Anselma Dell’Olio scorta il cinema ferreriano nel futuro, attraverso un’analisi lucida, ricca e umana. La sensazione, a fine documentario, è quella di non averne avuto abbastanza, di volerne ancora.
Dell’Olio sa di cosa sta parlando: oltre ad essere una fine conoscitrice di cinema in generale, e dell’opera di Ferreri in particolare, ebbe modo di collaborare con lui per un anno, nel 1978, sul set di Ciao Maschio, in veste di aiuto regista per i dialoghi in inglese — e di saggiarne il temperamento sanguigno, la rinomata iracondia.
La regista alterna frammenti d’interviste e sequenze particolarmente rappresentative del suo cinema — El cochecito, La cagna, L’ultima donna, Dillinger è morto, La grande abbuffata, Chiedo Asilo, Ciao maschio, Storia di Piera, La donna scimmia — a commenti di professionisti con cui il regista ha lavorato. La galleria offerta è vasta ed esclusiva: gli attori Roberto Benigni, Isabelle Huppert, Hanna Schygulla, Andrea Ferreol, Ornella Muti, Sergio Castellitto, il regista Radu Mihaileanu — che gli fu assistente e discepolo — lo scenografo Dante Ferretti, il musicista Philippe Sarde, e il raffinato critico dei Cahiers du Cinéma, Serge Toubiana.
Dell’Olio non si scorda nemmeno di inserire le prospettive su Ferreri di chi ha fatto la storia del cinema, come i quattro protagonisti de La grade abbuffata — Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Michel Piccoli. Così come non dimentica che un bravo documentarista è un abile rovistatore di archivi: La lucida follia di Marco Ferreri offre un collage ben calibrato, mai strabordante, di materiale preso da Raiteche, Istituto Luce e altri archivi francesi e italiani, insieme a riprese di backstage e spezzoni d’epoca di goloso interesse storico: la notoria conferenza stampa per la presentazione de La grande abbuffata al Festival di Cannes, le reazioni inorridite di certo pubblico all’uscita della sala — “Un scandal! C’est un scandal!” grida la bourgeoisie française sulla Montée des Marches — danno il polso, meglio di qualsiasi racconto in terza persona, di quanto teso fosse il clima che “accolse” il film.
“Ho sempre messo sotto microscopio l’uomo e la donna”, dice Ferreri, all’inizio del documentario. Uno
statement che sintetizza il suo interesse verso l’umano, pur conservando, tuttavia, una passione speciale per gli animali e il loro mondo. “Non dovevo fare il regista, ma il veterinario. Poi ho pensato di voler bene all’uomo, e ho cercato di occuparmi di lui”. Come dimostrano tanti suoi film, la fascinazione per l’universo animale — un animale metaforico, ovviamente — non lo abbandonerà mai. Ciao Maschio, per dirne uno, propone un King Kong morto sulle rive dell’Hudson, la skyline newyorkese a pochi passi, un vago odor kubrickiano nell’aria.
Per quanto sia sempre stato considerato la voce che si oppone al coro, il dissacratore che mostra l’in-mostrabile — il mostruoso, per molti — Ferreri è, prima di tutto, un grande osservatore dell’universo umano, sia femminile che maschile. E riguardo la provocazione, un suo commento recita, laconico, “Forse far vedere allo spettatore quello che è, forse, è provocare lo spettatore”.
Come ci ricorda Benigni — che gli dedicò anche una poesia di grande effetto — Ferreri era amatissimo in Francia, come nessun altro italiano, soprattutto dai coltissimi Cahiers du Cinéma. Avevano capito la sua straordinaria originalità. Ma in Italia, dove spopolavano i “Maestri” — i già citati Rossellini, Fellini, Antonioni — Ferreri non suscitava, forse, gli stessi entusiasmi. “Questo perché lui non è ‘Il Maestro’. È l’opposto. È colui che scardina il sistema”, commenta il critico Toubiana, “In lui c’è la dimensione politica, ma anche psicoanalitica — più profonda di quella politica — sulla società, sull’uomo e sulle grandi questioni esistenziali, un approccio più raffinato di quello marxista tradizionale”.
Isabelle Huppert spende parole di elogio e affetto nei riguardi del regista — e lo stesso fa Hanna Schygulla —
definendolo “grande poeta”, ma offrendo anche una lettura estremamente acuta del dissidio che il regista viveva sul come porsi nei confronti delle donne. “Aveva una relazione complicata con le donne. Le amava molto, le celebrava nei suoi film. Ma si sentiva anche minacciato da loro — e questo è legato al momento storico in cui ha vissuto. Per questo si sentiva misogino e femminista insieme”.
Lo sa bene la stessa Dell’Ollio, che in Ciao Maschio, recita un piccolo ruolo all’interno di un circolo femminista, e spacca una bottiglia di Coca-Cola in testa a Gérard Dépardieu, durante un litigio tra i sessi.
Ferreri è molto spesso legato alle definizioni, da lui stesso proposte, di “cinema fisiologico” e “cinema buffoon”, ovvero burlesco, farsesco. “Voglio un tipo di cinema che arrivi alla gente, che abbia con loro un
rapporto animale. Ne La Grande abbuffata, ho raccontato quattro macchine fisiologiche, prima che sentimentali”, e riguardo al cinema buffoon “Penso a un’immagine: al giullare medievale, appeso per la lingua: era considerato pericoloso, aveva parlato troppo con la sua comicità. Lo stesso fa il cinema ‘buffoon’, farsesco: attraverso la comicità dice cose estremamente serie. È un cinema pericoloso. Pericoloso ma necessario”.
“Dolcissimo e iracondo”, per Benigni, “poetico e malinconico” per Shagullya, “realistico e onirico” per Noiret, Ferreri descrive se stesso come “un solitario che vorrebbe morire in un bar, circondato da duemila persone. Che vorrebbe star sempre a mangiare una frittata di duemila uova con tutti”.
Anselma Dell’Ollio ha salvato dall’oblio uno dei maggiori nomi della cinematografia italiana. Speriamo che il documentario funga da stimolo per la riscoperta delle opere del regista. Magari attraverso una retrospettiva. Italiana e americana.
Martedì 5 giugno alle ore 6:30 pm, il Walter Reade Theater del Lincoln Center ospita la proiezione del documentario e il Q&A con Anselma Dell’Olio. Alle 8:45 pm, seguirà la proiezione di La donna scimmia (The Ape Woman), uno dei primi film di Ferreri (1964), in una nuova versione digitale restaurata.