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Paesaggi come stati d’animo: la fotografia di Giuseppe Di Piazza

Intervista al fotografo siciliano le cui immagini sono in mostra alla Casa Italiana NYU fino al 16 giugno

Viola BrancatellabyViola Brancatella
Time: 6 mins read

Giornalista, scrittore e fotografo, Giuseppe Di Piazza è un autore di cui sentiremo parlare sempre più spesso a New York. Intanto, fino al 16 giugno 2017, è possibile visitare la sua mostra fotografica Landscapes alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University.

Giuseppe Di Piazza nel giardino della Casa Italiana Zerilli Marimò

Palermitano, classe ’58, Giuseppe di Piazza ha esordito come giovane giornalista all’Ora di Palermo nel ’79, dove si è occupato per quasi dieci anni di mafia e cronaca. Nel 1986 si è trasferito a Roma e ha lavorato per 15 anni a Il Messaggero come capocronista, caporedattore di Interni e di Giudiziaria e poi come caporedattore centrale. Dal 2000 vive a Milano, dove ha ricoperto il ruolo di direttore di Max e del Corriere della Sera Magazine e nel 2011 ha esordito come fotografo con la mostra Io non sono padano. Nel 2012 ha pubblicato il suo primo romanzo I quattro canti di Palermo (Bompiani), è entrato a Il Corriere della Sera come responsabile del sistema Corriere Innovazione e da allora dirige la rubrica video Confessioni su Corriere.it. Nel 2013 ha dato alle stampe il suo secondo romanzo Un uomo molto cattivo (Bompiani) e ha lanciato nella Collana I Corsivi del Corriere della Sera l’e-book di Fango – La doppia morte di un uomo perbene. Nello stesso anno ha esposto 26 ritratti fotografici di direttori dei periodici italiani nella mostra, prodotta da Leica Italia, dal titolo Italia Magazine, al Palazzo delle Stelline di Milano, al Festival dei Due Mondi a Spoleto e al Premio Ischia. L’anno successivo ha portato in mostra 20 ritratti di donne italiane, conduttrici della televisione, scrittrici e attrici nell’esposizione Negli occhi delle donne, e ha ripubblicato negli Stati Uniti il suo primo libro con Other Press con il titolo The four corners of Palermo. Negli anni successivi ha esposto a Milano e a Firenze con Dissoluzione Duomo, a Roma con la mostra fotografica su New York Electri-City e alla Galleria Expowall di Milano.

Questa è la sua prima mostra fuori dall’Italia e, quindi, la sua prima mostra a New York. Lo abbiamo incontrato all’inaugurazione di Landscapes e ci siamo fatti raccontare il suo rapporto con l’arte e con la fotografia.

Giornalismo, scrittura creativa, fotografia: quale di questi tre mestieri è arrivato per primo?

“Faccio tre cose, sono tre vite che si sono intrecciate. Ho cominciato fotografando a dodici anni, però poi il primo vero lavoro è stato scrivere. Ho cominciato a lavorare a L’Ora di Palermo nel ‘79, dove mi occupavo di mafia a fine anni ‘70-’80. In quegli anni hanno avuto origine i miei primi libri, romanzi, che ho scritto soltanto trent’anni dopo. Ho sempre continuato a fotografare e quindi adesso, negli ultimi anni, le carriere sono parallele tra loro, si intrecciano, ma sono parallele, riesco a fare un po’ tutto. È un modo espressivo continuo”.

Queste tre forme di espressione si compensano?

“Penso di sì. Anche nella scrittura creativa, nei romanzi, progetto e vedo le scene che descrivo in maniera un po’ fotografica e un po’ cinematografica, quindi per me c’è un intreccio forte tra questi due mezzi espressivi. Ovviamente nella fotografia sono più libero, la fotografia è sicuramente il mezzo più libero che uso, perché non ho bisogno di un editore, né di una macchina complessa dietro. Io fotografo, decido quello che voglio fare, per fortuna ho molte gallerie che mi ascoltano, quindi riesco a fare diverse mostre… Questa per me è una mostra molto importante, perché è la mia prima mostra fuori dall’Italia”.

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Giuseppe Di Piazza, Gargnano

Perché proprio a New York la prima mostra all’estero?

“New York è molto presente nelle mie foto, è una città per me di grande ispirazione. Qui ho ambientato e scritto pezzi di romanzi che devono ancora uscire. È una città cui sono molto legato, perché è una delle mie città di ispirazione. L’avevo rifiutata molti anni fa, quando mi era stato proposto di venire a fare il corrispondente qui, all’epoca i miei tre figli erano molto piccoli, non me la sono sentita. Mia moglie è americana, quindi ho un legame molto forte con questa città, però con i bambini piccoli mi faceva paura, mi sembrava molto difficile l’America della fine del Novecento. E invece poi l’ho riscoperta nel corso del tempo, da solo, quando sono venuto a stare qui a lungo, a scrivere, a fotografare, a girare in bicicletta, con cui faccio avanti e indietro nella città e grazie alla quale ho scoperto alcuni luoghi bellissimi”.

Quali sono i tuoi luoghi dell’anima a New York?

“Ho scoperto la bellezza di luoghi che stanno fuori dai percorsi correnti, come Staten Island, che considero un gioiello, Brooklyn, non la parte più nota, ma una Brooklyn che ho scoperto piano, come Brighton Beach, Coney Island, Brooklyn Shores, e tutti i luoghi della comunità italiana. Il mio bisnonno si era trasferito a New York nel 1899, poi è dovuto tornare in Sicilia dopo alcuni anni perché si è ammalato, ma lui viveva a Brooklyn nelle zone degli italiani. Prima aveva avuto una casa a Elisabeth Street e poi si era trasferito a Brooklyn. Sono andato a rintracciare un po’ tutta la sua storia. Poi c’è il Queens, dove ho girato dei piccoli documentari sulla comunità italiana per Il Corriere della Sera. Per me New York è un insieme di cose, sono oltre trent’ anni che ci vengo, l’ho amata, odiata, poi di nuovo amata e poi è diventato il luogo in cui vorrei forse venire a stare”.

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Giuseppe Di Piazza, Theaters

Le tue foto contengono diversi linguaggi stilistici e anche l’uso di manipolazioni digitali. Che rapporto hai con le nuove tecnologie?

“Uso il digitale come una tavolozza di colori. Ritengo che la fotografia abbia una sua purezza, in bianco e nero, su pellicola, in camera oscura, come l’ho fatta per tantissimi anni, rigorosissima, la adoro. Quando è arrivato il digitale ho capito che potevo fare delle cose che andavano molto di più incontro ai miei desideri, cioè riuscivo a dipingere con il digitale. E come vedi alcune di queste fotografie vorrebbero essere pittoriche. Non ho manualità per essere un pittore vero, ma ho lavorato anche di ritocco con pastelli a olio su stampe, ho fatto delle mostre a Roma incrociando le diverse tecniche. Il linguaggio del colore è il linguaggio del paesaggio per me, mentre il bianco e nero lo riservo al ritratto: ho fatto delle mostre di ritratti con foto solo in bianco e nero molto tradizionali”.

Qual è la componente dominante delle tue foto?

“Le mie foto sono principalmente trasfigurazioni artistiche della realtà, perché se fossero realistiche sarebbero fotoreportage. La differenza tra il foto-giornalistico e la fotografia artistica sta nell’intenzione narrativa. Io voglio raccontare una cosa come la vedo io. Poi facendo il giornalista da 39 anni, poter fotografare in questo modo o poter scrivere romanzi mi permettono di affrancarmi dall’obbligo di realtà. Io non sono mai giornalista in queste foto”.

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Giuseppe Di Piazza, Blu Manhattan

Puoi dirci qualcosa di più sui tuoi “Landscapes” in mostra alla Casa Italiana di New York?

“Queste foto sono stati dell’anima, sono luoghi in cui qualcosa è avvenuto o sta per avvenire, e in ognuno di loro c’è l’evocazione di uno stato d’animo. Per me ci sono delle storie in queste foto. C’è un movente artistico in queste foto, perché sono cresciuto in mezzo all’arte: mia madre era una gallerista d’arte, ho visto dipingere alcuni dei più grandi degli anni ‘60 e ‘70, come Schifano nel suo studio romano”.

La fotografia sembra il giusto bilanciamento artistico per un giornalista di mafia e di cronaca giudiziaria..

“Io ho fatto prima mafia, poi sono stato caporedattore di giudiziaria per tantissimi anni e all’epoca già fotografavo, ma in modo diverso: ero molto più realista. Adesso mi sono liberato, dal 2000 in poi mi sono liberato, sono diventato grande. Pensa che passo interminabili ore a dipingere tessuti di foulard..”

Un’anticipazione sul futuro?

“Io ho pubblicato alcuni libri in Italia con Bompiani e uno di questi è stato tradotto negli Stati Uniti da Other Press, una bellissima casa editrice, che mi ha diffuso negli USA e sono diventato un autore nei cataloghi americani. Ma la cosa più particolare è che adesso passo alla seconda più grande casa editrice statunitense, HarperCollins, quindi il mio prossimo romanzo uscirà in Italia con HarperCollins Italia e poi sarò nel catalogo internazionale”.

Una parola chiave sul tuo libro di prossima uscita?

“Parlerà di amore e morte”.

 

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Viola Brancatella

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