Mercoledì 19 aprile si è tenuto, presso l’Istituto Italiano di Cultura, un incontro di quelli preziosi. Di quelli che fanno spegnere i telegiornali, zittire certi protagonisti della politica, e ritrovare il piacere della parola scritta. Ed è vero che l’IIC offre molto spesso l’occasione di godere della presenza di personaggi culturali di spicco fra Italia e America, ma due giganti in conversazione come Claudio Magris e Norman Manea, non si trovano esattamente tutti i giorni. Entrambi candidati al Premio Nobel, entrambi esploratori di aree complesse dell’umana esperienza — lo stare, il sostare, l’andare e il tornare per Magris; l’olocausto, l’esilio, il senso delle immani tragedie storiche per Manea. Entrambi nati in città-frontiera città-crogiuolo, di interscambi e fecondazioni culturali — Trieste e Bucovina — ed entrambi prodotti dello spirito mitteleuropeo che spira in petto a scrittori con i quali condividono ben più che un territorio geografico: una terra mentale, artistica, valoriale. James Joyce, Italo Svevo, Philip Roth, per citarne alcuni.

“Fare il Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura ha degli aspetti che amo in modo particolare: uno di questi, la possibilità di ospitare personalità letterarie d’eccellenza come quelle di Claudio Magris e Norman Manea” ha aperto la serata così Giorgio Van Straten, visibilmente soddisfatto di avere due figure così rilevanti del panorama letterario internazionale. Vero “protagonista” dell’evento, tuttavia, è stato Non luogo a procedere il romanzo di Claudio Magris del 2015, la cui traduzione in inglese per mano di Anne Milano Appel è stata appena pubblicata con il titolo Blameless.
Moderatore navigato, e dotato di una piacevolissima ironia, Manea attacca con una citazione di Walter Benjamin sui francobolli — “esempi monadici della lotta tra la vita e la morte” — introducendo così l’ossessione al collezionismo del protagonista triestino di Blameless, per poi passare a riflettere sul modo “tutt’altro che idilliaco” in cui Trieste, epicentro e centro epico del racconto nonché terra natale di Magris, viene presentata nel romanzo. Un ritratto maledetto i cui contorni principali sono la corruzione, l’inganno, il tradimento, l’opportunismo, lo sfruttamento. E qui, ci viene da notare, una delle grandezze di un autore si misura anche nella sua capacità di distanziarsi da un oggetto amato — in questo caso, la città d’origine — e osservarlo con occhi lucidi, mostrandone ferite, difetti, colpe.
Non luogo a procedere racconta la storia tanto vera quanto incredibile di Diego de Henriquez, professore che per decenni raccolse armi di ogni genere — fucili, carri armati, cannoni, aerei, asce primitive, sciabole, la qualunque bellica — con lo scopo di fondare, a Trieste, il “Museo della Guerra per l’Avvento della Pace”, condannando gli orrori della guerra e promuovendo la pace. Una vera e propria mania, quella del collezionismo, che lo porterà a scoprire la Risiera di San Sabba, edificio che ospitò, fra il 1943 e il 1945, l’unico lager esistente in Italia, dove furono eliminati migliaia di partigiani, antifascisti, ebrei. De Henriquez comincia a trascrivere i graffiti lasciati dai detenuti sulle pareti delle celle, ma purtroppo il suo sforzo non vedrà la luce: un incendio gli toglierà la vita e distruggerà il capannone che custodisce i reperti e la maggior parte dei suoi taccuini. Le indagini non porteranno a nulla se non a ciò che in legalese si definisce “non luogo a procedere”. Il titolo inglese, Blameless, spiegherà Magris nel corso della conversazione, si discosta volutamente dall’originale per distanziare l’opera da certa letteratura legal alla Grisham, ed evocare la tendenza verso la rimozione della colpa diffusasi dopo la guerra.
Nel romanzo la voce del professore si alterna a quella di Luisa Brooks, la giovane donna incaricata di allestire il museo con i cimeli, i libri, gli appunti scritti da de Henriquez scampati al rogo. Luisa, a sua volta, è nipote di una donna morta nel campo di San Sabba, figlia di un’ebrea e di un sergente afroamericano impegnato nell’occupazione di Trieste.
Romanzo polifonico e palinsestico, “propone una novità assoluta in campo letterario”, ci fa notare Manea. “L’autore accosta il destino della gente di colore a quello degli ebrei attraverso la figura della nonna di Luisa e del sergente afroamericano che mescola l’orrore nazista alla tratta degli schiavi africani”.
Commenta Magris, oscillando fra romanzo e riflessioni più generali sullo scrivere. “Sono sempre stato affascinato dalla realtà, ‘più strana della fantasia’, come diceva Mark Twain. Tuttavia i miei personaggi sono tutti inventati. Di de Henriquez mi attraevano, e al contempo, repellevano, le sue ossessioni, e da qui è originato il romanzo. Ma anche dal silenzio letargico attorno alla storia della Risiera di San Sabba, e dalle ripercussioni che essa ha esercitato sulla memoria collettiva. A volte la storia appare come un elettroshock, e la scrittura è un modo per riportare in vita i morti… Ma in realtà, Blameless è un romanzo d’amore: Luisa è il risultato di due esili, la deportazione ebraica e la tratta degli schiavi. È una storia d’amore che rimane anche quando tutto il resto viene meno”.
Parlando di amore, Manea rievoca una scena erotica nel libro: l’incontro del protagonista con una donna, al contempo un’unione metaforica fra passato e presente, che si protrae per alcune pagine lasciando letteralmente senza fiato il lettore. “È una scena carica di magnetismo, che accende il fuoco del libro”. “È come se”, puntualizza Magris, “la vita di quest’uomo, fino a quel momento, fosse stata ostruita, bloccata, e poi, d’improvviso si sbloccasse, prendesse a scorrere. Forse, inconsciamente, stavo pensando alla frase del Vangelo ‘La fede smuove le montagne’… Ma credo anche che uno scrittore non scelga nulla, di fatto. Uno scrittore fa ciò che può e deve fare”.

Nel Q&A chiediamo a Magris come si pone nei confronti del concetto di appartenenza, per un’anima come la sua, così legata a Trieste ma anche, per formazione, a Torino — “mi considero felicemente bigamo”, aveva detto, in passato, riguardo a questo suo doppio legame affettivo-geografico. Se da un lato l’appartenenza garantisce al soggetto radici, basi, solidità, dall’altro può portare a pericolose forme di nazionalismo o eccesso di protezionismo verso ciò che si sente come proprio. Magris risponde citando il Sommo. “‘Dante sapeva che l’amore per Fiorenza, appreso dall’acqua dell’Arno, doveva condurlo a sentire che la nostra patria è il mondo, come ai pesci il mare’. Dobbiamo tenere sempre in mente l’immagine delle matrioske. Noi non siamo una identità, ma siamo tante identità insieme. Le une dentro le altre. Io sono triestino, certo. Ma sono italiano. Sono europeo. Sono mitteleuropeo… Siamo matrioske”.
In un tempo in cui i Trump puntano a sollevare muri, le Le Pen minacciano di proporre ai francesi referendum di uscita dall’Unione Europea e dalla moneta comune, e le May indicono nuove elezioni per guadagnare la maggioranza e zittire i dissensi in parlamento. In un tempo così, non si dovrebbe forse cercare di far passare il concetto espresso da Magris che siamo esattamente come le matrioske? Contenitori che contengono tante culture, e non monoliti mono-culturali? E che non c’è nessun cuore puro al centro, nessuna patria unica, ma che invece siamo la sovrapposizione di tutti quanti i singoli strati identitari che collezioniamo nel corso di una vita, e di tutte “le case” che abitiamo? Magris, del resto, aveva già sviluppato chiaramente quest’idea della pluralità di patrie ne L’infinito viaggiare. “…Non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine.”
Guardare più spesso le mani di certi scrittori, quello di cui sono portatrici e quello che ci indicano, potrebbe condure il mondo nella giusta direzione.