“Ma che cos’è davvero, l’Italia? È soltanto una nazione, piuttosto un modo di essere, o magari uno state of mind? Ed esiste davvero, o è solo un concetto astratto che comprime nello stesso cliché un’unità di culture e di approcci alla vita che c’entrano fra loro quanto un tubero con un paracarro? Una cosa è certa: oltre quella che si spalanca ogni giorno sotto i nostri occhi, di Italie ce ne sono tantissime. Comprese quelle che gli occhi li aprono magari a migliaia di chilometri da qui”.
Inizia così quello che ritengo uno dei migliori libri, sugli italiani nel mondo, degli ultimi tempi. Uno di quei libri che inizi a leggere e continui, divori, quasi fosse un romanzo avvincente. Ma si tratta di un saggio. Perché questo? Perché l’autore sa coniugare conoscenza, informazione con un linguaggio accattivante e appassionato. Si tratta di Franz Coriasco, giornalista, scrittore, autore radiotelevisivo e teatrale, torinese di nascita e romano d’adozione. È anche un critico musicale e si è occupato di alcuni grandi eventi per Rai Uno. Lavora stabilmente per Community, il programma di Rai Italia per le comunità italiane all’estero, condotto da Alessio Aversa e Benedetta Rinaldi. Il libro si chiama Mille Italie. Storie e sorprese del Belpaese nel mondo , edizione Città Nuova, disponibile anche in versione ebook, che va a completare, per certi versi, quanto descritto nel nostro ultimo articolo. Solo che qui le sorprese vengono da fuori l’Italia.
Prima di tutto ci puoi raccontare come nasce questo libro e perché questo titolo?
“In realtà me l’ha chiesto il mio editore dopo una chiacchiera sul mio lavoro in Rai… Era molto incuriosito e sorpreso da questi mondi di cui ci occupiamo a Rai Italia. Da qui l’idea di libro dal taglio divulgativo, una sorta di sorvolo su un’infinità di temi, argomenti, storie, situazioni, problematiche, raccontate con una duplice finalità: da una parte far conoscere agli italiani stanziali queste altre Mille Italie che così poco conoscono, dall’altra far conoscere agli italiani di fuori qualcosa di più dell’Italia e dell’italianità, della sua storia, dei suoi travagli, dei suoi problemi, delle sue risorse ancora inespresse. Vorrei aggiungere che scriverlo è stato per me un esercizio anche terapeutico: perché di questi tempi qui in Italia, siamo tutti un po’ depressi: per mille motivi e mille derive. Ebbene, immergersi in queste altre Italie vuol dire anche trovare una voglia di progettualità e un amore per questa terra che tutti noi troppo spesso rischiamo di dimenticare o di sottovalutare. In fondo l’italianità è fatta di paradossi: da una parte ci sottostimiamo, dall’altra pensiamo di essere unici al mondo. La verità sta probabilmente nel mezzo, e ho come l’impressione che gli italiani di fuori, al pari dei tanti stranieri che la amano, la sappiano cogliere ed esprimere molto meglio di noi”.
Quanti grandi artisti, geni dell’arte e della letteratura, innamorati dell’Italia racconti nel tuo libro. Puoi dirci quelli che ti hanno fatto vibrare di più nella loro dimostrazione di questo grande amore?
“La lista sarebbe lunghissima. Penso a Stendhal, per esempio, il quale ha voluto che fosse scritto sulla sua tomba che era milanese. Penso a Lord Byron e alla sua passione per l’Italia e i suoi valori libertari; penso a Stravinskij che ha voluto essere sepolto a Venezia nonostante fosse morto a New York; fino a tutti quegli intellettuali di ieri e di oggi che ancora la riconoscono come culla e scrigno della cultura occidentale”.
Nel testo scrivi: “Comunque sia, chi ci viene molto spesso ci torna, come contagiato da un mal d’Italia non troppo diverso da quello africano, ma certo più sfuggente e ricco di molteplici sfumature”. Cosa intendi per mal d’Italia?
“Voglio dire che, nonostante tante sue disfunzioni, per uno straniero è quasi impossibile che l’Italia e gli italiani non gli entrino nel cuore; almeno a chi l’ha conosciuta davvero, uscendo dai luoghi comuni che da sempre ci accompagnano. Non so, credo sia questo mix di culture millenarie e di sapori, di estroversioni umane e di continue eruzioni creative, di paesaggi e di opere d’arte straordinarie a fare dell’Italia quello che è. Un posto, come scrivo in un passaggio del libro, dove si può passare dal paradiso all’inferno solo girando lo sguardo di qualche grado, ma anche un posto che pare una vetrina di tutto ciò che è degno di chiamarsi Vita. E mi spingo oltre: non puoi dire d’aver vissuto davvero se non hai mai assaggiato almeno un pezzettino d’Italia. Compresi, in un certo senso, quelli che vibrano e vivono a migliaia di chilometri dal Belpaese, ma che in qualche modo ne fanno comunque parte”.
Ci puoi raccontare, seppur brevemente, qual è la tua esperienza di italiano all’estero?
“Ho viaggiato parecchio, per lavoro soprattutto. E in verità quando mi trovo all’estero preferisco cercare l’alterità, confrontarmi con usi e costumi, sensibilità e visioni della vita diverse dalle mie… Credo sia un modo per allargare la mente, e per relativizzare certi assoluti che ci portiamo dentro. Oggi si fa un gran parlare di dialoghi interculturali. Ebbene credo che il primo passo sia proprio questo: imparare a considerare l’altro non un potenziale pericolo, ma una grande ricchezza e a volte una fantastica opportunità. Detto questo c’è una cosa che mi impressiona molto quando trovo degli italiani all’estero: in Italia uno si sente innanzi tutto piemontese, o napoletano o romano prima che italiano; è solo andando fuori che ti senti per prima cosa profondamente italiano, coi tuoi pregi e i tuoi difetti ovviamente, ma anche con l’orgoglio di esserlo…”.
Sei tra gli autori di Rai Italia, in particolare del programma Community, che si rivolge agli italiani nel mondo, divenuto sensore e portavoce di questo mondo fuori d’Italia. Quali sono stati i momenti più importanti che hai vissuto in questa tua esperienza e che più hanno dato senso al tuo lavoro e al programma stesso?
“E’ una continua scoperta: ogni giorno abbiamo il privilegio di incrociare personaggi e vicende straordinarie. E non mi riferisco solo alle grandi eccellenze italiane che così spesso vengono a trovarci in studio, ma anche a persone che magari non raggiungeranno mai le grandi ribalte internazionali, ma che con il loro lavoro, la loro volontà, la loro energia sanno costruire cose grandi o bellissime… per sé, e per il mondo che hanno intorno. E poi c’è una cosa che fa di Community un programma davvero speciale, nel senso che non solo fa informazione di ritorno, offrendo cioè anche agli italiani di qui di scoprire queste altre mille Italie, ma anche circolare, connettendole tra loro in una sorta di vera e propria comunità virtuale”.
Quali tra i grandi personaggi italoamericani trovi più affascinanti?
“Anche qui la lista sarebbe lunghissima. Il primo che mi viene in mente è certamente Amedeo Giannini, il fondatore della Bank Of America, per tutto quel che è riuscito a fare per le comunità degli italo-americani; ma penso anche a tanti self-made men come Fiorello La Guardia, a un eroe della giustizia come Joe Petrosino, o all’infinità di talenti geniali capaci di esportare l’ingegno italiano e di applicarlo altrove, dal cartoonist Joseph Barbera al genetista e premio Nobel Mario Capecchi; per non parlare di tutte le stelle della musica e del cinema con sangue italiano nelle vene. E tutti senza mai scordare da dove sono venuti”.
Parliamo di made in Italy. Si tratta, come affermi nel libro, di un grande orgoglio, un brand tra i più riconosciuti nel mondo, al quale contrapponi l’Italian sounding, il fenomeno della contraffazione. Vorrei sapere se in un mondo globale/glocale dove prevalgono spesso prodotti ibridi il senso del territorio ha ancora la sua importanza nel definire il made in Italy?
“È una domanda complessa. In estrema sintesi direi che il made in Italy non deve per forza essere realizzato in Italia. Certo per tutto ciò che ha a che fare con l’eno-gastronomia c’è poco da discutere (e credo che occorra una maggior tutela dei prodotti nostrani), ma per quel che riguarda molti altri settori merceologici, come creazioni di moda o costruzioni, progetti, e quant’altro, il discorso cambia, perché chi li rende possibili, spesso ci mette dentro molto della sua italianità anche se vive a New York o a Melbourne. Ed è quasi sempre un tocco inconfondibile di classe, di genialità creativa, e di qualità che è anche figlio delle proprie radici”.
Cosa ne pensi del concetto di italicità ideato da Bassetti di cui parli nel tuo libro?
“Trovo che sia assolutamente corretto: le Italie nel mio libro sono molto più di quelle che immaginavo quando ho iniziato a scriverlo. Perché c’è un mondo, e intendo centinaia di milioni di persone – che anche se hanno radici italiane lontanissime o del tutto assenti, si portano in cuore un tale amore per il nostro Paese, che è giusto considerarli una parte integrante di noi. Ed è proprio questo straordinario potenziale che credo il nostro Belpaese, e chi lo governa, dovrebbe avere più a cuore; sia perché è un patrimonio a rischio, sia perché, se adeguatamente sfruttato, potrebbe davvero diventare il catalizzatore primario, il volano di quella rinascita italiana che tutti noi, italiani di dentro e di fuori, auspichiamo”.
Generalmente alla fine di ogni mia intervista chiedo tre parole che secondo l’intervistato, in questo caso secondo te, definiscono meglio l’Italia e gli italiani…
“Premesso che in Italia come tra i nostri emigrati esistono mille modi diversi di essere italiani, direi: ingegno, sbruffoneria, e flessibilità (che potremmo tradurre sia in arte d’arrangiarsi che in spirito d’adattamento)”.