Oggi noi tutti ci serviamo quasi quotidianamente in italiano dei termini “politica”, “geopolitica “, “filosofia politica”, “partito politico”, “rappresentanza politica”, “scienza politica”, “partecipazione politica”, “uomo politico”, e via dicendo. Come in inglese sono d’uso frequente “politics”, “policy”, “polity”, a seconda degli ambiti di appartenenza.
Ma quale parola è stata la madre di questi sostantivi e aggettivi? Quale lingua antica dobbiamo effettivamente ringraziare? Senza dubbio il greco antico, della civiltà ellenica e, in particolare, la parola “polis “.
Questo sostantivo è tra i più ricchi di significati all’interno del lessico greco e quello che purtroppo crea più problemi d’ interpretazione e traduzione agli studenti del liceo classico, in quanto muta completamente accezione a seconda del contesto nel quale si trova.
Il suo significato passa con disinvoltura da “città” a “città fortificata”, a “regione”, “cittadinanza”, “città a regime democratico”, “repubblica”, “condizione di cittadino”, “abitanti”, eccetera.
Nella civiltà ellenica, in particolare ad Atene, la” polis” era fondamentale non solo dal punto di vista politico, sociale ed economico, ma anche, e soprattutto, sotto il profilo psicologico ed etico-morale.
Cosa significava “polis” per un Greco? Essere un “polites” cioè un cittadino, nel pieno dei suoi diritti e doveri, indipendentemente dagli avi che lo hanno preceduto, che ha la facoltà di prendere parte alle decisioni comuni, proponendo, attraverso la libertà di parola, quello che ritiene sia il consiglio migliore per la comunità.
Il “polites” si sente coinvolto nella gestione della vita della sua città in prima persona: soffre, ama, combatte con ardore per i suoi concittadini quasi fossero membri della sua stessa famiglia. La meta finale della politica era infatti conseguire “il vivere bene”. È proprio questa la qualità che si riconosce ancora oggi ai greci: essi sperimentarono molto raramente quel conflitto fra società ed individuo che è causato dalla distanza fra chi è al potere e chi è sottomesso, ed è palese come gli interessi dell’individuo coincidessero con quelli della comunità. Ognuno trovava la propria realizzazione nella partecipazione alla vita collettiva e nella costruzione del “bene comune”.
Ma per comprendere con esattezza e senza equivoci tale parola e tale concetto, bisogna fare riferimento a colui che è ritenuto il più grande filosofo greco di tutti i tempi, Platone (428 a. C. – 348 a. C.). Egli intende la “polis” come un organismo educativo collettivo nei confronti del singolo: a capo di tutti e di tutto devono essere collocati i filosofi, cioè i saggi per eccellenza, coloro che sono in grado di agire a vantaggio del bene di tutti, nessuno escluso (e a questo proposito Platone stesso dirà con dispiacere che capita spesso che si presti più attenzione nello scegliere con scrupolo un allestimento teatrale o l’equipaggio di una trireme, piuttosto che le persone che ci devono governare), seguono i guardiani, che hanno il compito di vegliare sulla comunità e di proteggerla da pericoli materiali di ogni genere; in terzo luogo il popolo, cioè la collettività.
Fondamentale per Platone è la separazione della ricchezza dal potere, perché solo così si garantirà alla comunità piena e totale integrità morale.
I filosofi e i guardiani, quindi, non possiedono nulla, neanche una famiglia, che è abolita da Platone, perché i figli non appartengono a chi li ha creati, ma alla comunità che si deve occupare della loro educazione.
Il filosofo Aristotele (384 a. C /322 a. C.) trovò che la città ideata da Platone fosse affascinante, sicuramente, ma irrealizzabile. Probabilmente per Platone la “polis ” doveva essere intesa come un’idea in continua crescita ed evoluzione, condizione necessaria per il bene della comunità.

Secondo il grande Aristotele, l’uomo è un “animale politico” e, in quanto tale, è portato per natura a unirsi ai propri simili per formare delle comunità. Aristotele afferma anche che l’uomo è un essere naturalmente provvisto di “logos”, cioè d’intelletto e parola che ben si accordano con la sua innata socialità, perché è proprio mediante il “logos” che gli uomini possono trovare un terreno di confronto.
Con l’ avvento dell’Età ellenistica, in seguito alla morte di Alessandro Magno (323 a. C.) alla spartizione dei territori da lui conquistati tra i diadochi, la “polis” cesserà di esistere e il cittadino diventerà solo un obbediente suddito agli ordini del suo monarca, ma questo comporterà una forte crisi degli animi, un ripiegamento dell’uomo greco su se stesso e sarà proprio in questo periodo e per questo motivo che sorgeranno le filosofie dell’Epicureismo e dello Stoicismo o la Commedia di Menandro, volte a fare tornare almeno un debole sorriso sul volto di quelli che ormai erano solo sudditi.
Ma l’epoca della “polis” è ormai definitivamente tramontata, non tornerà mai più e con essa sono volati via tanti sogni e ideali meravigliosi.
Discussion about this post