L’estate del ‘64 non la passammo al solito stabilimento balneare Belsito di Ostia, quello dove c’erano tutti i miei vecchi amici. Su quella spiaggia, insieme a loro, non solo c’ero cresciuto ma avevo anche imparato a costruire splendide piste di sabbia per far sfrecciare la mia biglia di vetro. In quel mare, all’epoca pulito, mi tuffavo felice, affrontando i cavalloni, per poi correre al baretto a strafogarmi di cremini Motta. Ma mio padre aveva deciso di far terminare tutto questo e di cambiare. Chissà, forse quell’anno aveva vinto al Totocalcio, perché un bel giorno arrivò a casa e, con un sorriso a trentadue denti tuonò: “Quest’anno andiamo in vacanza a Capri!”.
Sbarcammo quindi nella celebre isola in un infuocato mese di agosto. Mia madre scese dal vaporetto, calzando già i tipici sandali capresi, comprati probabilmente al mercato di via Sannio. Io invece mi presentai con il tipico sguardo del tredicenne scocciato che avrebbe tanto voluto essere altrove, magari all’arena Cucciolo di Ostia Beach a vedere qualche bel film western sotto le stelle, insieme ai miei tanti amichetti abbandonati lì.
I primi giorni furono d’ambientamento. Non conoscevo nessuno e non sapevo proprio cosa fare. Ma poi, lentamente, feci amicizia con alcuni miei coetanei, abbastanza simpatici in verità. Tra questi c’era anche una certa Carola Faiella che un caldo pomeriggio ci propose: “Oggi pomeriggio andiamo a fare il bagno nella piscina di mio fratello?”. Salimmo così a piedi, lungo una stretta via, verso l’ingresso di una villa in zona Castiglione, sopra Marina piccola. Entrammo da un cancello aperto automaticamente chissà da chi e ci tuffammo subito dentro una bellissima piscina a forma di cuore.
“Ma chi è tuo fratello?”, domandai ad un certo punto. “Mio fratello è quello”, rispose Carola, indicando un tipo con gli occhiali che era appena apparso all’orizzonte. L’avevo già visto un sacco di volte quel tipo. Sui giornali, in televisione, insomma dappertutto. Si chiamava Giuseppe Faiella ma in realtà era diventato famoso con il nome di Peppino di Capri. All’epoca aveva solo venticinque anni, aveva vinto il Cantagiro dell’anno precedente ed era attualmente primo in classifica con la canzone Roberta, dedicata alla sua bellissima moglie, la modella Roberta Stoppa, dalla quale però si sarebbe separato dopo qualche anno.
A Capri era considerato naturalmente una specie di re assoluto, proprietario tra l’altro della famosa discoteca Splash, da tutti i vip e dove noi minorenni non avevamo diritto di accedere.
“Però stasera ci andiamo lo stesso”, sentenziò Carola, con un sorrisetto. “E come facciamo?», domandai. “Abbi fiducia, ragazzo”, rispose lei, sicura di sé.
La sera stessa ci trovavamo davanti all’entrata di servizio della discoteca, tra casse di vino e bottiglie di Champagne che venivano scaricate una dopo l’altra da energumeni che parlavano in un accento partenopeo per me indecifrabile. “È già arrivato mio fratello?”, domandò Carola. “Sì, signurì. È ‘ngoppa a ‘u palco e sta per travaglià”, rispose uno di questi.
Così entrammo, in fila indiana, in silenzio. Ci sistemammo seduti in terra nelle quinte, di fianco al palcoscenico, tra casse degli strumenti, attrezzi di scena e cordoni. Peppino e i suoi musicisti Rockers erano già sul palco. Davanti a loro la platea era stipata in ogni ordine di posti.
Attaccò la prima canzone che era un twist e si chiamava St. Tropez. stato un grande successo un paio di anni prima e tutti in sala si alzarono di scatto in piedi ed iniziarono a cantare, mentre noi prendemmo a battere le mani a tempo di musica. Peppino si girò a guardare e con grande meraviglia scoprì così quel gruppetto di mocciolosi tredicenni imbucati di straforo. Ma, invece di arrabbiarsi, ci sorrise, strizzandoci l’occhio, in segno di complicità, mentre attaccava Let’s twist again.
Prima della fine dell’estate il concerto si replicò all’aperto, in una splendida terrazza sul mare, a Punta Tragara. Mia madre e tutte le altre signore indossavano vestiti da sera molto eleganti e il profumo di Chanel n°5 si mescolava in una curiosa alchimia a quello dei gelsomini mentre, in un angolo appartato, spuntava la solita fila di tredicenni che batteva le mani.
In quell’occasione ricordo che Peppino indossava una delle sue celebri giacche in lamè e che, ad un certo punto, smise di cantare, prese un microfono e si sedette sul bordo del palcoscenico, mettendosi a raccontare la sua storia. Scoprimmo così che, dopo aver lungamente preso lezioni di piano dall’età di sei anni, aveva poi iniziato a suonare nel 1953 con l’amico batterista Ettore Falconieri, formando il cosiddetto Duo Caprese finendo addirittura in televisione, in un programma di Enzo Tortora. Nel ’57 formarono poi i Boys, al gruppo iniziale altri tre amici ed esibendosi nei vari night club del golfo di Napoli. Furono notati ad Ischia da un discografico in vacanza che gli propose un contratto. Così partirono tutti per Milano a bordo di una vecchia Mille e cento Fiat, gli fu cambiato il nome in Pdi Capri e i suoi Rockerse, nell’ottobre del ’58, incisero il primo 45 giri, replicando, soltanto due mesi più tardi, con un Long Playing, di grandissimo successo.
Tutto qui. Poi, a sorpresa, Peppino invitò la sua sorella minore Carola a salire sul palco e a cantare una canzone con lui. Lei, timidissima, avrebbe voluto evitarlo, ma non ci fu nulla da fare. Sospinta anche da noi amici, si ritrovò sul palco a cantare con il fratello una bellissima canzone di Modugno che si chiamava Notte di luna calante, esattamente il tipo di luna che c’era quella sera sul mare.
Ma perché questo ragazzo occhialuto e un po’ dinoccolato piaceva così tanto agli italiani di fine anni Cinquanta e inizio Sessanta? Forse perché cantava canzoni napoletane (e non solo), unendoci un certo swing americano molto originale per il periodo. Insomma il signor Faiella era in qualche modo un innovatore, un interprete davvero originale che sconvolse il tranquillo incedere dei tradizionali e un po’ noiosi cantanti nostrani alla Nilla Pizzi, Claudio Villa e Luciano Tajoli.
Non tornai più a Capri in vacanza ma continuai a seguire la carriera di Peppino. Un po’ a sorpresa me lo ritrovai un paio d’anni dopo sul palcoscenico del Teatro Adriano, prima dell’ingresso dei Beatles. Poi lo seguii a distanza in tutti i suoi successi degli anni seguenti. I Festival di Napoli, le esibizioni alla Carnegie Hall o all’Ed Sullivan Show, le grandi tournée internazionali, portando in giro la canzone italiana nel mondo. Nel 2013, al Teatro Sistina di Roma, ho accompagnato mia mamma ottantaseienne al concerto di Peppino. Non eravamo più a Punta Tragara sotto le stelle di Capri e non c’erano neanche i suoi Rockers ma, in compenso, c’era un’orchestra di trentadue elementi diretta dal maestro Antonello Cascone, per un repertorio davvero eccezionale che comprendeva non solo le famose canzoni di Peppino, da Roberta a Nessuno al mondo, da Champagne Sognatore, ma anche i gradi successi internazionali, interpretati magistralmente, When I fall in Love, Sabor a mi, C’est si bon, L’Hymne all’amour.
Ci accorgemmo così che il giovane cantante occhialuto di fine anni Cinquanta non sono era cresciuto d’età, era cresciuto davvero come interprete di gran classe, elegante e strepitoso. Applausi finali e lacrime, quelle di mia madre e, perché no, anche le mie.