Il quartiere di SoHo, nel cuore di Manhattan, è famoso in tutto il mondo. Il tratto di Broadway che lo attraversa è una delle vie dello shopping più affollate del globo e i grandi marchi internazionali fanno a gara per aggiudicarsi uno spazio tra le sue vetrine. Secondo la struttura a griglia tipica di New York, SoHo si espande verticalmente da Houston Street (la sigla, coniata da The New York Times nel 1968, significa infatti South of Houston Street) a Canal Street e, orizzontalmente, da Crosby Street alla Sixth Avenue. Un reticolo di poche strade occupate ad ogni ora da una massa di persone di ogni genere: turisti, uomini e donne d’affari, commessi o semplicemente commuters che attraversano la città. Nel giro degli ultimi quarant’anni l’area di SoHo si è imposta sulla scena cittadina prima come cuore della scena artistica e alternativa, poi come punto nevralgico per le attività commerciali della Grande Mela, infine è diventata una tappa imprescindibile per ogni visita turistica.
Una volta qui era tutta industria
Posizionatevi all’angolo tra Broadway e Broome Street, guardatevi intorno, poi chiudete gli occhi e provate a immaginare: poco più di quarant’anni fa il quartiere era praticamente disabitato. Di più: non era nient’altro che una zona industriale di bassa categoria, dalla quale la gente bene della New York del dopoguerra faceva di tutto per tenersi a distanza. Soltanto i camion attraversavano le sue strade per depositare le merci negli stessi spazi oggi occupati dai negozi di Prada o Victoria’s Secret.
Per farmi un’idea di come doveva essere il quartiere al tempo ho incontrato Aaron Shkuda, autore del libro The Lofts of SoHo: Gentrification, Art, and Industry in New York, 1950–1980. “Le produzioni erano attive principalmente nel campo tessile, in alcuni appartamenti si possono ancora vedere delle macchie sulle pareti, causate dall’olio che si usava per lubrificare le macchine per cucire”, ha spiegato Shkuda. Altre fabbriche producevano bambole o venivano usate come magazzini. La trasformazione è iniziata nel secondo dopoguerra, quando le innovazioni tecnologiche resero le produzioni di SoHo costose e inefficienti. “Le fabbriche iniziarono a lasciare il quartiere all’incirca nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Le macchine erano sempre più grandi e avevano bisogno di più energia di quanta gli edifici potessero offrirne. Le aree produttive erano certamente molto grandi, ma i corridoi erano (e sono ancora oggi) troppo stretti per rendere agevole il trasporto delle merci”.
Verso le fine degli anni ‘50, quindi, i responsabili delle industrie iniziarono a lasciare la zona per trasferire la produzione in zone migliori. Improvvisamente, le immense stanze degli edifici che si affacciano su Broadway furono lasciate vuote. I locali degli edifici di SoHo non rispettavano le norme residenziali: nel periodo appena successivo al trasferimento delle fabbriche le strutture, seppur certamente di dimensioni fuori dal normale, avevano a malapena le pareti. Le finestre erano insufficienti ad assicurare una corretta quantità di aria e luce, mancavano i servizi igienici e la cucina non era neanche lontanamente in programma. Questi grandi spazi, insomma, avevano una sola cosa positiva: il prezzo.
Disperati a causa delle pessime condizioni nelle quali le fabbriche lasciarono gli spazi, i proprietari degli edifici iniziarono ad affittarli agli artisti, l’unica categoria sociale disposta ad abitarvi. “Gli artisti non pagavano molto perché non potevano permetterselo — mi ha raccontato Shkuda — ma avevano bisogno di un posto dove stare. I grandi spazi offerti dai loft di SoHo erano perfetti perché davano loro la possibilità di lavorare e vivere nello stesso ambiente. Inizialmente gli appartamenti furono occupati in modo illegale e gli artisti iniziarono a trasformare i loro nuovi focolari organizzandosi in comunità man mano sempre più grandi, uniti dalle stesse passioni e interessi”.
La comunità artistica di SoHo nacque in questo modo, senza alcuna pianificazione, seguendo un processo che a posteriori appare logico, quasi naturale. Le strade del quartiere si trasformarono in un ricettacolo di tavolozze per dipingere, tele e materiali pronti ad essere scolpiti; gli artisti fecero delle difficoltà punti di forza e coesione lavorando giorno dopo giorno sugli spazi per renderli abitabili aggiungendo finestre, improvvisando collegamenti alla rete elettrica e fognaria e arredando le stanze con tutto ciò che riuscivano a trovare. Ad ogni ora del giorno e della notte le strade del quartiere erano animate da feste o bevute improvvisate, dando vita ad un’atmosfera unica e vibrante.
Le autorità di New York erano ben coscienti del fatto che i luoghi una volta sede di industrie produttive erano ora occupati illegalmente dagli artisti ma, inizialmente, decisero di chiudere un occhio. Come ha spiegato Shkuda, infatti, “l’amministrazione della città ha reagito molto lentamente al cambiamento. Al giorno d’oggi si è diffusa l’idea che gli artisti svolgano un ruolo positivo per l’ambiente sociale in cui vivono, ma a quei tempi la mentalità era diversa. Gli edifici era considerati non adatti ad essere abitati ma dato che le persone continuavano a trasferirvisi il comune iniziò a cambiare le proprie politiche riguardanti gli affitti perché si rese conto che gli artisti erano determinati a far sentire la propria voce e ad ottenere i permessi necessari per abitare legalmente in quelle che ormai consideravano allo stesso tempo le loro case e luoghi di lavoro”.
All’inizio degli anni ‘70 il Comune di New York creò appositamente per la comunità artistica di SoHo la Artist in Residence Law (A.I.R.), un documento con il quale si riconosceva in maniera formale la possibilità di occupare i loft dopo aver dato prova di essere, effettivamente, artisti mostrando le proprie opere e progetti. Il “lasciapassare d’artista” esiste ancora oggi. Molti si dissero contenti di questo compromesso anche perché, se l’area fosse stata aperta a tutti senza distinzioni, i prezzi sarebbero probabilmente saliti in tempi brevissimi mentre limitando la possibilità di affitto ad una particolare categoria sociale gli affitti rimasero accessibili.
Anche gli speculatori iniziarono ad interessarsi al quartiere che diventava più vivo di giorno in giorno e furono fatti vari progetti di riqualificazione urbanistica: alcuni proposero di distruggere i loft per dare vita ad un quartiere residenziale sul modello del Washington Square Village, altri inserirono la zona nel progetto della LOMEX (Lower Manhattan Expressway, il cui piano originale porta la firma del famigerato Robert Moses), un’autostrada che avrebbe dovuto attraversare tutta Manhattan. Fortunatamente, nessuno dei due piani andò in porto.
Con l’arrivo di nuovi abitanti iniziarono a fiorire anche attività commerciali come ristoranti e negozi, fino ad allora praticamente inesistenti. “I nuovi negozi si allinearono allo spirito generale che si respirava a SoHo, dando particolare importanza alla parte estetica”, mi ha detto Aaron Shkuda. Un esempio lampante di questo è lo spazio che ancora oggi è occupato dal negozio di alimentari Dean&DeLuca che ha aperto la prima bottega di formaggi proprio su Prince Street nel 1973 e che oggi ha supermercati, bar e caffetterie attive nelle principali città degli Stati Uniti e dell’Asia.
Inevitabilmente, poi, l’insediamento di una comunità di artisti nel quartiere fece in modo che molte gallerie d’arte decisero di spostarsi a SoHo, in modo da poter stare a stretto contatto con la zona più vibrante della città. Alcune gallerie sono presenti ancora oggi ma la maggior parte ha deciso di lasciare il quartiere in seguito all’invasione dei negozi e all’aumento degli affitti.
Memorie di quartiere
Yukie Ohta è un’artista di origini giapponesi che ha vissuto a SoHo per tutta la vita, sperimentando in prima persona la trasformazione alla quale il quartiere è andato incontro. Al momento Ohta è curatrice del SoHo Memory Project, una vetrina mobile di oggetti e memorie dedicate al suo quartiere e volte a preservarne la storia. Il progetto ha preso parte al programma di residency del SoHo Arts Network, rete nata nel 2014 dalla collaborazione tra alcun istituzioni d’arte non profit del quartiere, tra cui il Center for Italian Modern Art (CIMA).
Ho incontrato Ohta alla presentazione del progetto al CIMA. “SoHo è costruita su molti strati, è sbagliato considerarla solo come un centro commerciale — mi ha detto l’artista — Ho passato qui tutta la vita e ne ho vissuto appieno la trasformazione. È stata la prima in tutta New York, da qui l’ondata di gentrification si è spostata a Chelsea, nell’East Village, a Williamsburg…”.
Il loft in cui andò a vivere la famiglia di Yukie era un’ex fabbrica di bambole: “A volte mi muovevo per casa e rischiavo di scivolare sugli occhi di vetro che venivano usati per i giocattoli! Era un ambiente molti interessante” ha affermato. Nel suo progetto Ohta esplora i cambiamenti ai quali il quartiere è andato incontro da quattro prospettive diverse: mangiare, lavorare, giocare e vivere: “Voglio catturare l’essenza del quartiere per far capire cosa volesse dire abitare a SoHo negli anni ‘70, quando in qualche modo gli artisti hanno dato vita al quartiere e il quartiere ha dato vita agli artisti. Queste due componenti erano legate da un’inestricabile interdipendenza. Io ero ancora una bambina e non conoscevo nulla di diverso: le case improvvisate in cui vivevamo erano la mia normalità. Oggi SoHo rimane, ma non è più come prima. È qualcosa di diverso. Ma questo è ciò che succede: i luoghi, come le persone, cambiano”.
Un loft per ballare
Per capire meglio l’atmosfera della vibrante comunità di artisti che prese vita a SoHo tra gli anni ‘70 e ‘80 sono andata a parlare con Douglas Dunn, coreografo che ha vissuto da protagonista quel momento e, ancora oggi, vive e lavora nel quartiere.
Douglas Dunn è un coreografo di Palo Alto, California, che dal 1968 risiede tra le strade di SoHo. “Quando sono arrivato il quartiere era praticamente deserto. Un amico mi ha consigliato un appartamento su Elizabeth Street e mi sono trasferito con mia moglie. Quando mia madre venne a trovarmi il tassista non voleva farla scendere dall’auto, diceva che era una zona troppo pericolosa. Quasi tutte le industrie si erano ormai spostate altrove e noi iniziammo ad occupare gli edifici illegalmente”.
Con le occupazioni venne la trasformazioni degli spazi che andavano adeguati alle esigenze dei nuovi inquilini i quali, da buoni artisti, si misero all’opera per riqualificare e abbellire quegli spazi: “Abbiamo iniziato a trasformare gli enormi spazi affittati per prezzi stracciati, creando finestre e innalzando pareti molto spesse. Si respirava un’atmosfera straordinariamente stimolante. Con il tempo, gli edifici diventarono abitabili e legali [tramite la A.I.R.].” Quando gli artisti si trasferirono a SoHo i prezzi del quartiere iniziarono presto a salire in maniera esponenziale, ha spiegato il coreografo, al punto che “oggi soltanto gli artisti che si erano già stabiliti nei loft in passato riescono a mantenersi qui e i costi di manutenzione sono incredibilmente alti”.
Eppure, a sentire Dunn, sembra che gli artisti non vogliano rinunciare al quartiere: “Spostandosi di un solo isolato si possono trovare appartamenti in una tranquilla area residenziale, ma ciò che è particolare di SoHo sono certamente i grandi spazi che i loft offrono e che vanno a influenzare lo stile dell’artista: il mio studio mi permette di fare un certo tipo di danza, un coreografo che vive in un appartamento più piccolo deve necessariamente adattare la sua arte all’ambiente”.
Irreversibilmente, la zona iniziò presto ad acquisire un carattere marcatamente turistico, con l’imposizione di negozi di lusso e catene alimentari: “Il passaggio è stato incredibilmente rapido. Broadway non era una strada predisposta alle attività commerciali ma i negozi hanno semplicemente iniziato ad affittare gli spazi e montare le vetrine. In questo modo il quartiere ha iniziato a diventare più elegante e rinomato”. L’arrivo delle attività commerciali costrinse le gallerie d’arte a lasciare la zona ed emigrare in quartieri più tranquilli, come Chelsea: “Le gallerie iniziarono ad andarsene e tutta la zona divenne una grande attrazione turistica, un centro commerciale”. Oggi Douglas Dunn ha in attivo collaborazioni con molte compagnie a livello nazionale e internazionale, e continua a tenere corsi ed esercitazioni in varie location sparse per Manhattan tra cui il suo studio, al 541 di Broadway.
Arte di strada
Un’altra voce che mi ha raccontato l’atmosfera creatasi tra la comunità di artisti di SoHo è quella del pittore Zigi Ben-Haim, anche lui tra i protagonisti della rinascita anni ’70. Ben-Haim è originario di Baghdad ma ha passato l’adolescenza a Tel-Aviv, frequentando l’Istituto di Belle Arti. L’Associazione culturale americana in Israele gli ha poi offerto una borsa di studio con la quale ha conseguito un MFA all’Università di San Francisco, per poi spostarsi definitivamente a New York nel 1975.
Ho incontrato Ben-Haim nel suo loft a Mercer Street, dove vive e lavora, e ci ha raccontato la sua storia: “Quando sono arrivato a New York sono venuto direttamente a SoHo. Erano gli anni ‘70 e l’ambiente era totalmente diverso. Di sera le strade erano buie, in giro si vedevano soltanto artisti e camion venuti a prendere e lasciare merci per le industrie che ancora erano stanziate qui. Per la prima volta gli artisti vivevano e lavoravano nello stesso posto: è stata una rivoluzione, era un periodo estremamente interessante”.
Ben-Haim ha anche precisato che, nonostante i tanti pregiudizi, il quartiere “non era bello esteticamente, ma era molto sicuro” perché le persone che lo abitavano non avevano nulla da offrire a potenziali ladri o criminali. L’atmosfera era incredibilmente amichevole, le porte erano sempre aperte e si organizzavano continuamente feste e raduni. “C’erano solo due bar ed era sufficiente andare lì per incontrare tutti”, mi ha detto Ben-Haim.
Anche la produzione artistica “dipendeva” dal quartiere. “Presto gli artisti hanno iniziato a familiarizzare con ciò che il quartiere poteva offrire e anche io ho trasformato l’ambiente in cui vivo in fonte di ispirazione. Usavo soltanto i materiali che potevo trovare girando per le vie e raccogliendo quello che le fabbriche buttavano per strada. In particolare prendevo gli stampi che le industrie tessili usavano come base per le magliette, li portavo a casa e li modificavo. Era un materiale estremamente leggero e insieme a questo spesso trovavo vari tipi di corde e tessuti. Quando il quartiere ha iniziato a trasformarsi mi sono dovuto adattare e ho iniziato a collezionare immagini che la gente perdeva o dimenticava. Ho moltissimi ricordi di quel periodo”.
Come ho spiegato prima, con gli artisti iniziarono ad arrivare anche le gallerie d’arte. Le migliori erano situate all’interno degli edifici, al terzo o quarto piano, “quasi come per simbolizzare il fatto che se volevi vedere la vera arte dovevi andare lì appositamente per quello, dovevi cercarla”, mi ha spiegato l’artista, aggiungendo però che oggi la maggior parte degli spazi espositivi si sono spostati, per via dell’esorbitante aumento del prezzo degli affitti.
Ben-Haim vive oggi in un loft di 350 metri quadrati che ha comprato nel 1980 per 40.000 dollari, con le spese di manutenzione fissate a circa 400 dollari al mese. I nuovi inquilini devono invece pagare un contributo di 6.000 dollari al mese per le sole spese di manutenzione, e il suo appartamento è quotato a 7 milioni. La maggior parte dei locali interni sono stati completamente ristrutturati (anche se Ben-Haim ha mantenuto quasi tutto identico a come appariva negli anni ’80) ma all’esterno gli edifici di SoHo sono considerati parte del patrimonio storico della città e non possono essere modificati: “Oggi non costruiscono più edifici così, sono esempi di architettura americana e sono protetti. L’intera area di SoHo è considerata una sorta di monumento, mentre quarant’anni fa nessuno voleva metterci piede”. L’aumento degli affitti ha costretto molti giovani artisti a lasciare la zona per spostarsi verso Chelsea o TriBeCa ma Ben-Haim è convinto che lì non si respiri la stessa sensazione di comunità che si era creata a SoHo negli anni ‘70. “SoHo è unica, non occupa un’area molto estesa e la maggior parte delle strade sono piccole, era semplice conoscere tutti. Mi mancano quei tempi, tutto era diverso”, ha concluso l’artista.
Oggi SoHo è entrata nell’immaginario comune grazie ai suoi immensi (e costosissimi) loft attrezzati con tutte le comodità e per gli infiniti negozi che sfilano sulla Broadway. Pochi ricordano da dove tutto ciò ha avuto inizio.