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April 27, 2016
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Quarant’anni di Quinto potere

Alla sua uscita nelle sale americane, "Network", di Sidney Lumet, rivelò i retroscena dei mass media

Chiara BarbobyChiara Barbo
quinto potere
Time: 4 mins read

A rivederlo adesso, può sembrare un film tanto cinico quanto ingenuo, uno svelamento dell’inganno mediatico, a rivelare essenzialmente che la televisione non dice la verità. E anche che il giornalismo televisivo è morto, sacrificato sull’altare dell’audience, che i media manipolano fatti e persone e sono a loro volta manipolati da poteri economici globali che hanno nomi e cognomi, e che gli spettatori sono totalmente in balia della notizia televisiva, costruita e confezionata ad arte per infondere paura o sicurezza, a seconda delle esigenze del mercato e della politica.

Niente di nuovo per noi oggi, noi che abbiamo avuto il signor Berlusconi  al tempo stesso presidente del Consiglio e padrone assoluto delle televisioni, noi che da sempre abbiamo la lottizzazione più o meno palese della televisione pubblica, noi che in questi quarant’anni abbiamo visto tanti film e serie TV che ci hanno raccontato i dietro le quinte delle newsroom, e noi che adesso le notizie ce le andiamo a cercare In internet, possibilmente leggendo più siti e più fonti, ma qui si aprirebbe un’altra questione (sull’informazione in Internet, appunto, groviglio di verità e bugie in cui chiunque può scrivere qualunque cosa e chi legge può pensare sia verità). Tuttavia, alla sua uscita nelle sale americane, nel 1976, Network (Quinto potere) di Sidney Lumet era quasi profetico.

La locandina del filmTutto comincia da un commentatore televisivo, Howard Beale, che dopo anni ai vertici degli ascolti non ha più la stessa audience, il suo gradimento ormai è precipitato e gli viene comunicato l’imminente licenziamento. Ecco allora che Beale annuncia in diretta che la settimana dopo, durante la trasmissione del martedì, si sarebbe suicidato in diretta televisiva. E l’audience si impenna. Non vorrei svelare troppo, per chi non avesse visto il film, ma da questo momento comincia un vortice di follia mediatica, tra proprietari, presidenti e direttori di rete, giornaliste rampanti senza scrupoli, inchieste politiche tanto audaci quanto immorali, alternate a programmi spazzatura. Tutti a caccia del pubblico, tutti a costruire nuovi show e palinsesti nel disperato tentativo di aumentare l’indice di gradimento. Ad ogni costo.

E lo stesso Howard Beale si fa santone televisivo, prima sfruttato dai vertici della rete per cui lavora poi temuto, un guru mediatico che dice al pubblico la verità: verità sulla politica americana, sulle scelte delle reti televisive, sulla costruzione faziosa e ingannevole dei palinsesti, e quelle tante verità sulla vita che nessuno vuole sentire.  A voi immaginare il finale…

Di guru così ne abbiamo visti tanti in TV, oggi (come ieri) ne abbiamo in rete, sui social network, a capo di chiese, di partiti politici, è quello che la gente ha sempre chiesto, anche qui, niente di nuovo. Ma il film di Lumet racconta tutto questo quando la TV era ancora considerata una cosa seria e tutto stava appena cominciando ad accadere, non più raggiungendo qualche migliaio di persone con una perfomance o un comizio, ma milioni e milioni di telespettatori.

Network vinse quattro Oscar: miglior attore protagonista a Peter Finch, miglior attrice protagonista a Faye Dunaway, miglior attrice non protagonista a Beatrice Straight e, per me il più importante di tutti, miglior sceneggiatura a Paddy Chayefsky, quel Paddy Chayefsky nato e cresciuto nel Bronx, autore di meravigliose sceneggiature per il cinema e vincitore dell’Oscar per tre volte (unico caso nella storia dell’Academy), con Marty, The Hospital e, appunto, Network, autore di soggetti e sceneggiature televisive che negli anni Cinquanta hanno radicalmente cambiato il modo di scrivere per la televisione, film televisivi a forte impatto sociale sulla scia del kitchen sink drama britannico. Quella televisione che nel 1976 lo scrittore newyorchese conosceva ormai bene, tanto da scrivere Network, un feroce atto d’accusa che è anche un dolente epitaffio, non tanto alla televisione quanto alla sensibilità umana.

Il 1976 è stato un gran bell’anno per il cinema, oltre a Network uscivano All the President’s Men (Tutti gli uomini del presidente) – curiosamente, un altro svelamento di verità, in cui però i giornalisti fanno il loro lavoro, accostando i due film si potrebbe dire carta stampata vs televisione – e anche Marathon Man (Il maratoneta) e Taxi Driver, film assolutamente newyorchesi, come Network, che raccontavano i diversi volti di quella che in quegli anni era una delle città più violente del mondo occidentale, in cui la corruzione era morale ed economica.

Paddy Chayefsky sarebbe morto morto pochi anni dopo, la macchina televisiva è andata avanti e oggi mi sembra che continui ad essere un’ottima cassa di risonanza per venditori di pentole come di futuro. Ben supportata dai social newtork ovviamente. Qualcuno tempo fa ha scritto che una bugia detta in televisione diventa subito verità, ed è il pericolo più grande in una società mediatica come la nostra, una società fatta non di elettori ma di spettatori. In italia sicuramente facciamo la nostra parte, ma a guardare la tv in questi mesi direi che anche Mr Trump ha imparato bene la lezione.

Per chi volesse vedere o rivedere il film, Cinema Under the Influence, in collaborazione con Fordham University Lincoln Center, il 30 aprile celebra l’anniversario di Network con una proiezione del film seguita da un Q&A con il giornalista di The New York Times, Dave Itzkoff, autore del libro Mad as Hell: The Making of Network and the Fateful Vision of the Angriest Man in Movies.

Infine, una breve citazione dal film: “Suicidi, assassini, bombardieri folli, sicari mafiosi, scontri con grovigli di automobili… L’ora del terrore: il grande show della domenica sera per tutta la famiglia… Lasceremo perfino Disney senza spettatori…”. Il meraviglioso mondo del giornalismo televisivo spiegato in poche battute da William Holden nella sequenza di apertura di Network.

Guarda il trailer di Network (in inglese):

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Chiara Barbo

Chiara Barbo

Scrivere di cinema o scrivere il cinema? Possibilmente tutti e due. Dalla critica cinematografica alla sceneggiatura passando per la produzione, al di qua e al di là dell'oceano, collaboro con La VOCE di New York e con Vivilcinema, con la Pilgrim Film e con Plan 9 Projects. E anche con altri. Ma per lo più penso, immagino, ricerco, scrivo, organizzo in modalità freelance. Insieme a tanti altri, faccio parte della giuria del David di Donatello. New York è stata una scelta. New York è intensa, vitale, profonda e leggera, pacchiana e intellettuale, libera, creativa, è difficile, è bellissima, ed è la città più cinematografica del mondo.

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