Questo è il sesto capitolo del racconto 'Federico' (qui potete leggere i capitoli precedenti).
La settimana successiva Federico, dopo i soliti accordi sul servizio che Ferdinando avrebbe scritto per quella settimana, era tornato all’attacco:
“Voglio sapere che stai combinando con la tua vita. Se poi non ti va più di parlare con me, beh, pazienza”.
“Ma certo che mi va di parlare con te! Anche perché voglio un consiglio. Chiudiamo ‘sta cosa di lavoro e poi ti dico come stanno le cose della mia vita”.
“Ok”.
“Finalmente – disse Ferdinando – ho avuto la dritta sul programma dinamico regionale. Vogliono fare sparire un sacco di soldi per dare in cambio alla Regione non si capisce bene che cosa. Ho già tutto in testa. E a casa ho le carte. Ti faccio un pezzo di novanta-cento righe più un appoggio di quarantacinque. Ci metto pure un’intervista con un ingegnere che, numeri alla mano, dimostra che l’operazione che vorrebbero fare è un bluff. Anzi, una truffa. E che spariranno un sacco di soldi”.
“Andiamoci piano con questo programma dinamico. Soprattutto se ci sono di mezzo i soldi dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Sai, qui la sinistra democristiana conta. Vai leggero, mi raccomando”.
Dopo le precisazioni su un’inchiesta che lo preoccupava un po’, l’amico napoletano era tornato sugli argomenti personali di Ferdinando. Era evidente che quella sera non l’avrebbe mollato.
– “Ora dimmi in quali casini ti sei infilato”, gli aveva detto.
“Prima di litigare con Eliana – riprese Ferdinando – ho conosciuto una ragazza. Capelli biondi, occhi chiari, corpo statuario. Praticamente bellissima. Ecco…”.
“Ecco che?”.
“Quando l’ho conosciuta mi è piaciuta subito. Ma ci ho levato mano. Sai, se sono fidanzato non faccio stronzate. Poi, però…”.
“Però?”.
“Quando per la seconda volta ho mandato a quel paese Eliana sono ritornato a Palermo. Sempre da solo. Due giorni dopo, nel tardo pomeriggio, sorseggiavo un Margarita in un bar. Ero con i miei pensieri. Ho sentito il mio nome pronunciato da una voce femminile. Ho girato il capo: era Florinda, questo è il suo nome. Si è seduta accanto a me. Abbiamo cominciato a parlare. Dopo un po’ mi è sembrato normale invitarla a prendere una pizza”.
“Mi sembra giusto”, osservò Federico.
“Te lo giuro: speravo mi dicesse no. Non avrei insistito nemmeno una volta. Invece…”.
“Invece ti ha detto sì e siete andati in pizzeria”.
“Già. Poi l’ho accompagnata a casa”.
“Così sai pure dove abita”.
“Già”.
“E la sera dopo vi siete rivisti”.
“Già”.
“Il seguito me lo posso immaginare”.
“Già”.
“Insomma, hai cambiato fidanzata…”.
“In un certo senso sì. Ma non mi va di andare avanti con questa storia. Nemmeno io ho capito cosa sta succedendo alla mia vita. Ti prego, parliamo di lavoro”.
“E vabbé torniamo al lavoro”.
Che debbo fare con il progetto dinamico? Qui non mi fanno scrivere un rigo. Si beccheranno un sacco di soldi nel silenzio generale. Almeno diciamo qualcosa noi”.
“Fammi vedere un po’ come siamo messi qui con ‘sta roba – rispose Federico -. A quanto ho capito ci sono di mezzo i soldi per il Sud. Tanti soldi. E, soprattutto, c’è di mezzo un colosso nazionale. E la sinistra Dc che nella tua Isola comanda come da noi qui a Napoli. Su queste cose non posso decidere da solo. Vediamo che cosa mi dicono i capi. Intanto manda il servizio. Voglio capire di che si tratta”.
Ferdinando inviò a Napoli l’inchiesta sul progetto dinamico con un giorno di anticipo. Ma venne bloccata. Ferdinando fu costretto a inventarsi un nuovo servizio di sana pianta. Si salvò in calcio d’angolo con l’agricoltura. Al giornale gli arrivavano sempre gli inviti per prendere parte ai convegni e alle manifestazioni agricole. Si ritrovò tra le mani un invito su un seminario dell’Ente di sviluppo agricolo della Sicilia che si sarebbe svolto di lì a qualche giorno dalle parti di Agrigento. Tema: le sistemazioni fondiarie in alcuni versanti dell’Isola. Menate allo stato puro. Ci mise dentro qualche riflessione malinconica di Giustino Fortunato, un paio di battute di Manlio Rossi Doria, la solita sinfonia sul mezzo fallimento della riforma agraria siciliana del 1950, la legge Segni e bla bla bla.
Venne fuori un servizio di cento righe più un appoggio di quarantacinque righe di dettagli tecnici sulle sistemazioni fondiarie. Dati che si era fatto spedire dall’addetto stampa dell’Esa. Che, a dire il vero, era alquanto stupito e felice che il supplemento economico di un quotidiano nazionale desse risalto a un argomento così particolare dell’agricoltura siciliana. Ferdinando confezionò il tutto in meno di tre ore. Il tempo di approfondire velocemente il tema del convegno. Di fare un po’ di telefonate per raccogliere un paio di battute. Di inserire le citazioni dai libri presi in fretta e furia a casa. Aggiungendo le notizie dell’ufficio stampa dell’ente agricolo regionale. Infiocchettando qua e là le quattro cose che ricordava dai tempi dell’Università. Oggi che si scrive con i computer questo si sarebbe chiamato un copia e incolla.
Del resto, era in emergenza. Sperava che il servizio sul programma dinamico sarebbe andato. E invece all’ultimo momento era stato bloccato. E dire che aveva lavorato a quell’inchiesta due notti. Ci aveva dato sotto. L’aveva riscritto per ben tre volte. Allora si lavorava con la macchina da scrivere. A levare era facile. Bastava coprire le parti da cancellare con il pennarello nero. Ma se c’era da aggiungere, tutto si complicava. Qualche parola, o un paio di parole, si potevano sempre scrivere a penna. Con la grafia leggibile. Ma se la frase da aggiungere era lunga c’era poco da fare: bisognava armarsi di pazienza e riscrivere se non tutto l’articolo, almeno la pagina dove aggiungere le nuove parti del servizio.
L’approfondimento sul programma dinamico aveva fatto tribolare Ferdinando. Nella prima versione aveva scritto tutto. Con pochissime sbavature. Rileggendolo si era accorto che era andato giù pesante. Troppo pesante. Così aveva cominciato a lavorare di pennarello, tagliando lì una parola, lì un’intera frase. Alla terza lettura si era accorto che aveva esagerato con i tagli. Così aveva messo giù, riscrivendola per intero, la seconda versione dell’inchiesta, recuperando un bel po’ di roba. Rileggendo ancora una volta l’articolo notò che aveva dimenticato un passaggio sui rapporti tra alcuni personaggi della Sicilia e il gruppo nazionale protagonista dell’affare. Quella parte non poteva restare fuori. Morale: riscrisse le ultime due cartelle aggiungendo le parti mancanti.
L’indomani, a mente fresca, rileggendo il pezzo si accorse che, nonostante i tagli, era pesante lo stesso. Una mezza bomba. Ebbe il dubbio che non sarebbe passato. Ma ormai era mercoledì, penultimo giorno disponibile. Per guadagnare tempo, presagendo qualche problema, anticipò la visita alle dimafoniste.
Già da qualche anno nei giornali era stato introdotto il fax. Ma in alcuni paesi della Sicilia questo strumento non era ancora diffuso. Così i corrispondenti continuavano a dettare i loro pezzi ai dimafonisti. Un’attività che nel giornale del pomeriggio dove lavorava Ferdinando era svolto da due signore dolcissime. Ferdinando era sempre gentile con loro. E le due signore erano sempre gentili con lui.
Le due signore, quando non fumavano, stavano con le cuffie davanti alla macchina da scrivere. I corrispondenti dettavano e loro prima registravano e poi ascoltavano le registrazioni e scrivevano. Erano velocissime. Anche Ferdinando era veloce con i tasti della sua Olimpia. Ma loro, le due signore, lo erano di più. Sulla tastiera le loro dita volavano. Ogni volta che le vedeva in azione, restava estasiato. Gli piaceva osservare le dita delle dimafoniste e il foglio di carta dove prendeva corpo l’articolo. Restava minuti e minuti a guardare i verbi, i sostantivi, gli aggettivi, le virgole, i punti che si inseguivano sul foglio di carta a ritmo frenetico. In quella stanza si avvertiva solo il ticchettio delle tastiere. E l’odore del fumo delle sigarette. In quegli anni l’atmosfera dei giornali era data anche dal lavoro dei dimafonisti.
Nella stanza delle due signore era stato sistemato l’unico fax del giornale. Lì, oltre agli articoli telefonati e trascritti dalle dimafoniste, arrivavano gli articoli dei corrispondenti che utilizzavano il fax. E da lì, naturalmente, si potevano inviare i fax.
Inviare fax, soprattutto in altre città d’Italia, non era consentito. Erano costi in più per il giornale. Costi ingiustificati in un quotidiano dai bilanci traballanti. Per Ferdinando le due signore facevano eccezione. Lui, se non esagerava, poteva inviare il fax alla redazione del giornale di Napoli. Così, ogni settimana, il giovedì, Ferdinando si recava nella stanza delle dimafoniste e inviava i suoi pezzi ai napoletani.
In genere questo avveniva nel primo pomeriggio, tra le tre e le quattro. Quella volta Ferdinando anticipò l’invio del servizio a mercoledì a mezzogiorno. Aveva un presentimento. Un brutto presentimento. Che si rivelò esatto. Dopo aver spedito il pezzo era tornato alla sua scrivania e si era immerso nella lettura dei giornali. Un’ora dopo sentì squillare il telefono. Era Sabato che gli passava Napoli.
Dall’altra parte del telefono Federico gli riferì che il servizio era stato momentaneamente bloccato. Nel motivare il rinvio della pubblicazione dell’inchiesta e “non il rifiuto”, l’amico fu piuttosto vago.
“Qui vogliono sapere a chi andiamo a pestare i piedi. E’ solo cautela. Il tempo di capire di più. Ovviamente, mi devi inviare entro domani un altro servizio. Sennò sono nei casini”.
Così Ferdinando si era inventato l’apertura sull’agricoltura.
La sera Federico lo chiamò. Gli fece i complimenti.
“In meno di tre ore hai messo giù un’apertura di pagina. Bravo. Mi hai tolto dai casini”.
Il servizio sul programma dinamico avrebbe preso una pagina intera. Bisognava sostituirlo con un’inchiesta della stessa lunghezza. E Ferdinando, inventandosi quella storia di agricoltura, c’era riuscito. Ma era una soddisfazione a metà. Aveva la testa all’inchiesta bloccata. E alla barca di soldi che quei signori avrebbero intascato per non fare una mazza. Le solite ruberie. La cosa gli dava fastidio. C’era, alla base, una motivazione morale. Ferdinando detestava i ladri. Soprattutto nella pubblica amministrazione. Sgamare le operazioni banditesche era, per lui, un imperativo categorico. Era la lezione che aveva imparato negli stanzoni del giornale del pomeriggio dove lavorava: denunciare sempre le malversazioni e le ruberie. Senza guardare in faccia nessuno.
C’era un’altra cosa che lo preoccupava. Aveva la sensazione che qualche alto burocrate della Regione avesse intuito che lui era sulle tracce di questa storia. La cosa non gli piaceva. Era sempre un affare di parecchi miliardi di lire. In questo lavoro quando sai una cosa di un certo peso, prima la scrivi meglio è. Tenersela in pancia poteva diventare pericoloso. Soprattutto in Sicilia.
Se hai saputo una cosa pesante e la scrivi subito i colletti bianchi e i mafiosi si possono pure incazzare. Ma una volta che è di dominio pubblico possono fare poco. Non ti possono sparare per non farti scrivere una cosa perché ormai l’hai già scritta. Al massimo, si possono vendicare. In ogni caso, se l’hai scritta e resa pubblica, ha ridotto del cinquanta per cento la possibilità di finire nei casini. Magari la percentuale di salvezza preventiva è più alta perché i mafiosi sono più propensi ai delitti preventivi che a quelli punitivi. Queste, grosso modo, erano le regole che Ferdinando aveva imparato a furia di occuparsi di truffe e ruberie varie nella pubblica amministrazione. Dove la mafia è sempre presente.
Negli anni ’80, poi, la regola di scrivere tutto e subito andava rispettata alla lettera. Come aveva previsto Tonino, un vecchio giornalista che dai primi anni ’80 era il suo mentore, le cose si erano complicate.
“Prima di gettarti su questa storia assicurati che i napoletani ti pubblichino l’articolo. Girare tra gli uffici per cercare certe notizie e poi non scriverle non è consigliabile. Soprattutto in Sicilia”, gli aveva detto.
Ferdinando ascoltava sempre i consigli di Tonino. Però quella volta aveva fatto di testa propria. Sapeva – ne aveva già parlato con Tonino – che in Sicilia nessuno gli avrebbe pubblicato l’inchiesta sul programma dinamico. Ma era sicuro che a Napoli l’avrebbero presa. Ormai scriveva per napoletani da più di quattro anni. Ogni tanto proponeva qualche argomento spinoso. Ed era sempre andata bene. Questa volta, però, si era sbagliato.
Tonino l’aveva gettato sull’ironico:
“Così hai scoperto che nemmeno a Napoli vogliono la storia del programma dinamico. Bravo. Lo vuoi capire o no che l’operazione è grossa? Troppo grossa. E certe operazioni, qui da noi, o si fanno con il placet dell’opposizione o non si fanno. Tu qui a Palermo scrivi per il giornale dell’opposizione. Che non può sputtanare la propria parte politica che, sottobando, appoggia l’operazione. Così hai provato a rifilare il servizio ai napoletani, ben sapendo che quello è un giornale governativo. A gestire questa operazione è la sinistra democristiana. E tu vuoi sputtanare la sinistra democristiana in uno dei giornali della stessa sinistra democristiana. Non ti sembra troppo? Era un calcolo che avresti dovuto fare prima. Hai perso tempo. Ti sei esposto. E la cosa non è bella. E, se lo vuoi sapere, non mi piace”.
L’analisi non faceva una piega. In queste cose Tonino non sbagliava mai. L’aveva conosciuto quando, da ‘biondino’, cominciava a scrivere i primi articoli di cronaca regionale. Tonino era originario di un paese delle Madonie. Faceva il giornalista da quarant’anni. Alto, magro, con pochi capelli in testa, occhi vivacissimi, aveva vissuto e lavorato, da giornalista, nella Sicilia degli anni ’50, ’60 e ’70. Era stato vicino a uomini che avevano fatto la storia dell’Autonomia siciliana. Dei fatti della Regione conosceva tantissime cose. E aveva un archivio impressionante: articoli, fotografie, appunti. Non c’era argomento del passato del quale Tonino non sapesse qualcosa. Storie nazionali e, soprattutto, siciliane. Quando i conti non gli tornavano cercava nel proprio archivio, da dove saltava fuori almeno un vecchio ritaglio di giornale.
Per Ferdinando era diventato un punto di riferimento. Nel corso degli anni, a furia di passare serate intere con lui, aveva imparato un sacco di cose. Non solo. Ferdinando era uno dei pochi ad avere accesso alla parte dell’archivio che Tonino teneva nel suo studio del grattacielo di via Emerico Amari. Un’altra parte dell’archivio la teneva nell’abitazione di Palermo e una terza parte nella casa del paese arroccato sulle Madonie, Castelbuono. Quando era libero Ferdinando si fiondava nello studio dell’amico, all’ottavo piano del grattacielo, e si immergeva nella lettura.
Nei primi tempi si divertiva a prendere tra le mani una carpetta a caso. L’archivio di Tonino era artigianale. Ferdinando aveva contato più di cinquecento carpette. In ogni carpetta l’amico raccoglieva gli articoli su un dato argomento, le fotografie e, in alcuni casi, gli appunti scritti a penna, di suo pugno,
Estraeva la prima carpetta che gli capitava a tiro e si metteva a leggere. L’accordo era che avrebbe dovuto riporla da dove l’aveva presa. Aveva pure il permesso di fare le fotocopie.
Se non ci fosse stato Tonino con la sua memoria storica e con il suo archivio Ferdinando non avrebbe mai potuto scrivere gli articoli che scriveva. Soprattutto quando si avventurava su vicende degli anni ’50 e ’60. C’era chi si complimentava con lui per le ricostruzioni di certe inchieste. Ma Ferdinando sapeva che il merito non era suo, ma di Tonino.
Anche con Federico, ogni tanto, parlavano di Tonino. Quando per i napoletani ricostruiva qualche vicenda economica del passato, Federico, nei giorni successivi, al telefono, gli diceva:
“L’amico Tonino ha colpito ancora. Mi piacerebbe conoscerlo. Quando vengo a Palermo ci vediamo tutt’e tre”.
Già, conoscersi. Ormai sembrava una cosa impossibile. Soprattutto da quando Ferdinando si era catapultato a sorpresa a Napoli. Era stato un altro flop. Vittorio, che aveva creato l’occasione per mandarlo in missione ad un convegno sul Sud, l’aveva avvertito:
“Anche io sono per le sorprese”, gli aveva detto. “Ma siccome stai prendendo l’aereo per Napoli e resterai lì due giorni è meglio che lo avverti. Non si sa mai”.
Ma Ferdinando era stato categorico:
“Tranquillo, Vittorio – aveva detto all’amico – ci siamo sentiti l’altro ieri. Abbiamo un appuntamento telefonico per domani a mezzogiorno. Invece domani a mezzogiorno mi presento nella redazione del Mattino e gli faccio una sorpresa”.
Ricordava ancora quella mattina. Era un giovedì. Appena atterrato all’aeroporto di Napoli Capodichino aveva preso un taxi. Si era fatto lasciare in via Toledo.
– “A che altezza di via Toledo?”, aveva chiesto il taxista.
“Dove capita”, aveva risposto.
Aveva scelto la via Toledo perché anche a Palermo, una volta, c’era via Toledo. L’attuale corso Vittorio Emanuele si chiamava infatti così. Poi, con l’unificazione, quando la Sicilia era entrata a far parte dell’Italia, la via aveva preso il nome del re savoiardo.
Ferdinando, però, quando passava da corso Vittorio Emanuele pensava sempre che quella, un tempo, era stata via Toledo. Quel nome nella sua mente suonava meglio. Era più musicale. Meno informale. Più dolce. Meno rigido. Più meridionale.
Così, una volta giunto per la prima volta a Napoli si era fatto lasciare in via Toledo. Erano appena le nove e mezzo di mattina. Visto che contava di essere da Federico a mezzogiorno, aveva due ore e mezza di tempo per andare a zonzo per la città.
Napoli gli era piaciuta subito. Gli aveva fatto simpatia il taxista. Gli era piaciuta via Toledo. Gli erano piaciute le persone alle quali aveva chiesto informazioni. Gli erano piaciuti il cassiere e il ragazzo del bar dove aveva sorseggiato un caffè espresso.
Al bar si era preso una soddisfazione che sognava da anni. Appena arrivato alla cassa aveva tirato fuori i soldi e aveva detto:
“Un caffè per me e uno pagato”.
Un suo vecchio amico che aveva fatto il Liceo a Napoli gli aveva raccontato la storia dei caffè pagati. A Napoli non tutti hanno i soldi per pagarsi un caffè. Ma a Napoli, anche per i poveri in canna, il caffè è un diritto costituzionalmente garantito. Così chi si ritrova in tasca qualche soldo in più, ogni tanto, oltre a pagare il proprio caffè, ne paga un secondo per chi non può permettersi di pagarlo.
Il suo amico gli aveva raccontato che a Napoli, nei bar, ogni tanto passa qualche povero in canna e chiede:
“Che c’è un caffè pagato?”.
Se qualcuno ha pagato un caffè, il titolare del bar non se lo fa ripetere due volte. E così anche il povero in canna si sorseggia il suo caffè.
A Ferdinando la storia del caffè pagato era piaciuta tantissimo. Era vera? Era falsa? Una volta giunto a Napoli, aveva deciso di verificare le cose di persona. Del resto, Ferdinando aveva letto avidamente tutti i libri di Giuseppe Marotta, che restava uno dei suoi scrittori più amati. E la storia del caffè pagato, nell’umanità napoletana descritta in modo magistrale da Marotta, ci stava dentro tutta. Anche se ricordava di non aver letto, tra le pagine di Marotta, nulla del caffè pagato.
Ricordava di aver parlato una volta del caffè pagato con Federico. Quando aveva chiesto all’amico se conosceva la storia del caffè pagato, Federico si era quasi risentito:
“Certo che so cos’è un caffè pagato! Guarda che io so di Napoli. Io pago almeno un paio di caffè ogni settimana. Da noi è quasi un dovere. Tutti hanno diritto al caffè espresso. Tutti. Anche chi non ha i soldi per pagarlo. Ci mancherebbe! A Napoli una vita senza caffè non sarebbe vita”.
Queste parole Federico le aveva pronunciate ridendo. Così Ferdinando non aveva capito se scherzava o diceva sul serio. In ogni caso, quella volta Ferdinando aveva detto a Federico che a Palermo l’usanza del caffè pagato non sarebbe stata capita.
“Mi sembra strano”, gli aveva risposto Federico. “Vengo spesso giù in Sicilia. Sono sempre tutti gentili e ospitali. Non posso credere che lascerebbero vivere una persona senza il caffè espresso del bar”.
La discussione era andata per le lunghe. Ferdinando aveva spiegato che lui parlava di Palermo e non dell’intera Sicilia. Federico aveva ribattuto di essere stato più volte a Palermo e di avere sempre trovato le persone molto gentili e disponibili. Ferdinando aveva precisato che la questione, nel caso del caffè pagato, non riguardava né la gentilezza, né la disponibilità.
“E’ la filosofia del caffè pagato che il palermitano non potrebbe mai digerire. Nel caffè pagato c’è una condizione di indefinito e di infinito che un abitante di Palermo nato e cresciuto a Palermo non può tollerare. Il genotipo dei palermitani non può contemplare nemmeno una riflessione sul caffè pagato”.
“Perché?”, aveva chiesto divertito Federico.
“Perché il palermitano è fondamentalmente un punico”.
“Spiegati”.
“I punici, come ricorderai, erano commercianti. Pur di commerciare, affrontavano il mare aperto. Erano grandi navigatori. Rischiavano. Ma lo facevano per un motivo preciso: per commerciare. Tu dai una cosa a me e io do una cosa a te. Questo spirito, a Palermo, è passato intatto attraverso i secoli. Un palermitano non pagherebbe mai un caffè per chi passerà da quel bar dopo di lui. Attento: se sei con lui ti offre il caffè e magari il pranzo. Ma devi essere con lui. Ti deve avere accanto. Deve poter parlare con te. Ti deve toccare. Ma non potrebbe mai pagare un caffè per un indefinito essere che passerebbe da quel bar un’ora dopo o un giorno dopo. Non puoi chiedere questo a un palermitano, Sarebbe contro la sua natura”.
Quella mattina, pagando i due caffè alla cassa aveva ripensato alla chiacchierata con Federico. Il cassiere l’aveva guardato in faccia e aveva sorriso. Un sorriso di approvazione. E l’aveva anche stupito perché nel dargli lo scontrino gli aveva detto:
“Un siciliano che conosce il caffè pagato. Bravo”.
“Come fa a sapere che sono siciliano?”, aveva chiesto Ferdinando.
Il cassiere l’aveva guardato negli occhi e gli aveva risposto:
“Secondo lei io sono napoletano?”.
“Certo”, aveva risposto Ferdinando.
“E da cosa l’ha capito?”.
“Dall’accento”.
“Appunto – aveva risposto il cassiere – io ho l’accento napoletano, ma lei ha un accento siciliano che non può finire”.
Anche il ragazzo che faceva il caffè era stato gentile. Gli aveva servito un caffè che era una poesia: cremoso e caldo al punto giusto. Poi, quasi a premiarlo, gli aveva dato un cioccolatino:
“Tenga – gli aveva detto – questo se lo gusta dopo la sigaretta”.
Sempre più divertito Ferdinando aveva chiesto al ragazzo:
“Come fa a sapere che accenderò una sigaretta?”.
“Me ne accorgo dalla faccia. Lei non ha la faccia di uno che dopo avere preso il caffè non si accende la sigaretta”.
In effetti, se non aveva ancora preso dalla tasca della giacca il pacchetto di Merit era proprio perché, in quei pochi secondi, Ferdinando era rimasto a discutere con il ragazzo del bancone del bar. Tornò a sorridere, tirò fuori le Merit e ne offrì una al ragazzo, che accettò volentieri. E ne offrì una anche al cassiere. Che non si fece pregare.
Dopo questa discussione un po’ metafisica tornò in strada per continuare il suo giro. Si fece indicare la via per i quartieri spagnoli. Poi volle vedere l’abitazione di Benedetto Croce. Camminando senza una meta si perse per i vicoli di Napoli. Si sentiva in paradiso.
Alle undici e qualcosa si ricordò che doveva andare a trovare Federico. Chiese dove si trovasse la sede del giornale. Gli spiegarono che, dal punto in cui si trovava, a piedi, avrebbe impiegato una mezz’ora abbondante.
Mancavano dieci minuti a mezzogiorno quando si presentò alla portineria della redazione. Chiese di Federico. La risposta del portiere gli comunicò un presentimento non proprio bello.
“Stamattina non s’è visto. Proviamo a chiamarlo”.
Passarono quaranta secondi, o forse un minuto. Poi il portiere tornò a guardarlo e gli disse:
“Gliel’ho detto: oggi non si è visto. Ho parlato con un suo collega. Mi ha detto che oggi non verrà”.
“Mi può passare il collega?”.
“Certo”.
Un minuto dopo parlava al telefono con un collega di Federico. Non era uno di quelli che conosceva. Gli disse che Federico aveva avuto un problema. Era andato fuori Napoli. Sarebbe restato via qualche giorno.
A quel punto Ferdinando si presentò.
– “Ah, il nostro corrispondente dalla Sicilia – gli disse il collega al telefono -. Federico ci ha lasciato il tuo servizio di questa settimana. Lo passiamo oggi pomeriggio. Vuoi salire? Dai, stai un po’ con noi”.
– “Ti ringrazio. Come se avessi accettato. Volevo fare una sorpresa a Federico. Ma evidentemente non c’è destino”.
Fine sesta puntata/ Continua
Foto tratta da bicentenario.provinciadinapoli.it