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July 21, 2017
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L’Iran, il Paese dove tutti guardano il Trono di Spade anche se è censurato

La famosa serie è censurata dalla televisione di Stato, ma ha raggiunto una strepitosa penetrazione attraverso chiavette USB e streaming pirata

James HansenbyJames Hansen
L’Iran, il Paese dove tutti guardano il Trono di Spade anche se è censurato

Jon Snow (uno dei protagonisti della serie), in uno dei fotogrammi della 7^ stagione, rilasciati in esclusiva a livello promozionale da HBO (Foto: Helen Sloan/HBO)

Time: 2 mins read

Prima, ricordiamo che l’Iran è solo per il momento l’Iran: il Paese è sempre stato, e probabilmente sempre sarà, la Persia. Ed è proprio alla Persia che piace enormemente il programma televisivo Game of Thrones, “Trono di Spade”, nella versione italiana. La serie è troppo ricca di violenza, di sesso e di fantastico per passare la censura dell’IRIB – Islamic Republic of Iran Broadcasting, la TV di Stato, e ha raggiunto lo stesso una strepitosa penetrazione senza essere trasmessa alla televisione, passando invece attraverso una distribuzione “informale” su DVD, chiavette USB e streaming pirata – E il tutto corredato da doppiaggi e sottotitoli casalinghi e da dozzine di siti Internet dove i fans litigano su chi è lo spadaccino più bravo di Westeros. Malgrado gli ostacoli da superare per seguire la serie, TechRasa, una società di new media iraniana, calcola che il 3,8% del pubblico mondiale di Trono di Spade risieda nel paese, mentre la popolazione dell’Iran è invece solo l’un percento di quella terrestre. La stima si basa sull’analisi del relativo traffico sui social network. Il successo sproporzionato di “Bazi Taj va Takht” – letteralmente “Gioco di corone e troni” – in un paese islamico sciita non è facilmente spiegabile e non sembra comunque essersi verificato in altri mercati dalle stesse caratteristiche.

Si è detto che la colonna sonora – molto presente come suoneria sui cellulari di Teheran – è di un compositore di origine iraniana, Ramin Djawadi. Altri fanno notare come la storia dell’ “ultimo eroe”, Azor Ahai, che movimenta la serie, parrebbe dovere molto alla tradizione dello Zoroastrismo, l’antica religione persiana che prevede la reincarnazione dopo la morte in occasione della definitiva battaglia tra bene e male. È anche vero che re duellanti e vendette dinastiche sono il pane della tradizione letteraria persiana. L’epica nazionale – lo Shāh-Nāmeh, il ”Libro dei Re”, del poeta persiano Ferdowsi (935-1025) – dedica sessantamila coppie di versi in rima al racconto delle conquiste eroiche, ai grandi guerrieri, alle gloriose battaglie e alle bestie mitologiche delle origini persiane, così codificando la lingua e le forme letterarie – un po’ come le opere di Dante e di Manzoni in Italia o, prima ancora, quelle di Omero nel greco. Secondo il quotidiano Al Monitor, che ha analizzato il fenomeno, il Trono di Spade propone un tipo di narrazione che si allinea alla perfezione con quella già familiare agli iraniani. Il giornale cita un fan che spiega: “Il fatto che una parte s’ispiri alla storia vera la rende ancora più coinvolgente”. Qui è bene ricordare che lo Shāh-Nāmeh fece da baluardo contro l’arabo, proteggendo la lingua nazionale, il farsi, dopo la conquista islamica della Persia tra il 633 e il 644 e la susseguente “arabizzazione” del Paese. L’opera infatti si conclude con la sconfitta del suo ultimo Re, Yazdgard III, da parte degli invasori arabi. Per un curioso malinteso culturale e storico, parrebbe che una serie televisiva americana stia ricordando agli iraniani che sono dei persiani. Forse non è il momento più felice per una simile scoperta, visto il peggioramento dei già difficili rapporti con i “cugini” islamici del mondo arabo, perlopiù sunniti – ma la storia sembra insegnare, anche in questo caso, che mentre il presente finisce sempre, il passato non muore mai.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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