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February 27, 2015
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L’italoamericano, la lingua creata dagli immigrati italiani in America

Filomena Fuduli SorrentinobyFilomena Fuduli Sorrentino
Il cartello stradale al confine tra Brooklyn e Queens sulla strada per l'aereoporto JFK: il cartello messo dal comune di NY, pensando di essere divertente, in realtà tocca un tasto per alcuni dolente dell'esperienza degli immigrati italiani in America

Il cartello stradale al confine tra Brooklyn e Queens sulla strada per l'aereoporto JFK: il cartello messo dal comune di NY, pensando di essere divertente, in realtà tocca un tasto per alcuni dolente dell'esperienza degli immigrati italiani in America

Time: 8 mins read

 

Avete idea di cosa si prova a partire per un paese straniero e sconosciuto, con pochi soldi, senza conoscere la lingua e la cultura, dicendo addio alla famiglia, agli amici, e lasciando dietro di se la propria casa e l’Italia? E' difficile sapere che cosa si prova se non si affrontano simili esperienze. Eppure, milioni d’italiani hanno vissuto e affrontato simili difficoltà negli USA dall’unificazione dell’Italia in poi. 

In quest’articolo descrivo brevemente il fenomeno dell'italoamericano, la varietà linguistica parlata dagli italiani emigrati in America, in particolare da quelli nello stato di New York.

Tra il 1890 e il 1930  circa cinque milioni di italiani emigrarono negli Stati Uniti dal sud dell’Italia: Campania, Abruzzo, Molise, Basilicata, Puglia, Calabria, e Sicilia, emigravano soprattutto dalle campagne o dalle zone rurali del meridione. Erano numerosi gli italiani che lasciavano l’Italia e all’epoca della Seconda Guerra Mondiale rappresentavano la comunità di emigranti più numerosa in America. Tra quelli che lasciarono l’Italia prima del 1960 erano in pochi a conoscere l’italiano standard o altre lingue. Infatti, è soltanto da qualche decennio che l’italiano in Italia è adoperato nelle conversazioni al posto del dialetto, quindi, quasi tutti gli immigrati italiani parlavano il dialetto regionale. Di conseguenza, a causa della loro limitata esperienza linguistica, sia in inglese e sia in italiano, e la necessità di comunicare con gli abitanti della nuova comunità, sul posto di lavoro, e per sopravvivere nel nuovo mondo, gli italiani espatriati furono costretti ad adattarsi linguisticamente creando parole miste di italiano e inglese, e così nacque l’italoamericano, un linguaggio che permetteva agli immigrati di farsi capire nella nuova comunità, ma che non si può definire una vera lingua o un dialetto. Questo metodo di comunicazione è conosciuto con il termine Pidgin (in Inglese /'p ɪ d ʤɪ n/ ). Infatti, il Pidgin  è un idioma derivante dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti venute a contatto a seguito di migrazioni, colonizzazioni, o relazioni commerciali. La tendenza alla pidginizzazione, con la formazione di parole nuove, risponde all'esigenza di una comunicazione immediata; questo metodo comunicativo era molto comune anche tra i navigatori che si spostavano da un porto internazionale all’altro per motivi di commercio.

L’italoamericano è un linguaggio misto e varia a seconda dell’età, della generazione, del livello d'istruzione e dell’inserimento sociale. Il codice è caratterizzato dall’influsso dell'inglese nel lessico e nella struttura dell'italiano o dialetto regionale, ma essendo l’inglese la lingua più forte, detta lessificatrice, le parole dell’italoamericano hanno la radice inglese e il suffisso italiano, normalmente l'innesto di una consonante e una vocale alla parola inglese, oppure solo di una vocale. Esistono molte parole inglese-italiano codificate e fortemente semplificate che consentivano la comunicazione tra i parlanti delle due lingue. 

Alcuni esempi tra le parole più popolari sono:

Bosso dall'ingl. boss per capo 

Billi dall’ingl. bills per fatture

Carro dall'ingl. car per macchina/auto

Ceca dall’ing. check per assegno

Fattoria dall'ingl. factory per fabbrica

Farma dall'ingl. farm per fattoria

Fornitura dall'ingl. Furniture per mobili

Fensa dall'ingl. fence per recinto . 

Giobba dall'ingl. job per lavoro

Grosseria dall'ingl. grocery per generi alimentari

Bisinisse dall'ingl. business per affare

Germanese dall'ingl. german per tedesco

Marchetta dall'ingl. market per mercato

Trobolo dall'ingl. trouble per guaio

Tichetta dall'ingl. ticket per biglietto o verbale

Trocco dall’ing. truck per camion o fulgone

Storo dall'ingl. Store per negozio

Ci sono anche combinazioni di verbi come:

Draivare dall'ingl. "to drive" per guidare

Schedulare, da "to schedule" che sostituisce l'italiano programmare, e fissare un appuntamento"

Splittare, da "to split" al posto di dividere

Switchare, da "to switch" al posto di scambiare

Matchare, da "to match" come sostituto di abbinare

Quittare, da "to quit" al posto di andarsene, dare le dimissioni

Buyare, da "to buy" comprare

Parcare da to park parcheggiare.

Con questo metodo di acquisizione dell’inglese si manifesta anche una perdita di termini italiani da parte del parlante. Infatti, la lingua se non si usa praticandola si dimentica, e i nuovi termini acquisiti mediante codificazione facevano dimenticare al parlante la locuzione sostituita, per esempio: il parlante che sostituiva il termine “tichetta” per “biglietto o verbale” perdeva l’uso di questa voce perché in seguito non la ricordava. Oggi questi termini sono in disuso nelle comunità italo-americane poiché gli anziani con una limitata esperienza linguistica, sia in inglese sia in italiano, sono rimasti in pochissimi. Gli adulti italoamericani parlano perfettamente inglese e sono integrati nella società americana, e le giovani generazioni studiano l’italiano standard a scuola, e quindi, questo linguaggio non è quasi più utilizzato. In più, le zone di Brooklyn, Ridgewood, Bronx, e del Queens, dove esistevano le comunità italiane ora sono comunità latine, e i pochi italiani rimasti che parlavano italoamericano in queste comunità oggi parlano un italospanglish, cioè le loro conversazioni sono un misto di codici italiano-inglese e italiano-spagnolo, un linguaggio ancora più complesso. 

Quando sono arrivata a New York, molti anni fa, non sapevo parlare l’inglese perché a quei tempi in Calabria era diffuso il francese e il latino e non l’inglese. Arrivata a New York, ho avuto l’opportunità e il privilegio di conoscere le sorelle di mio nonno, tre zie che non erano mai ritornate in Italia. Una di loro, la maggiore, era immigrata prima della Seconda Guerra Mondiale all’età di sedici anni; si era sposata giovanissima, e aveva sempre vissuto nel Long Island in un ambiente americano. Lei aveva acquisito l’inglese e non parlava con parole miste. Quando la zia parlava in italiano era un piacere ascoltarla perché parlava un calabrese “puro” ricco di termini che oggi nemmeno in Calabria si sentono più. Le altre due zie, invece, erano emigrate a un’età matura, dopo la Seconda Guerra Mondiale, e abitavano a Brooklyn. Loro parlavano l’italoamericano, in sostanza il calabrese con delle parole miste con l’inglese. I loro figli, invece, nati in America, cercavano di parlare in italiano con me ma facevano molta fatica a sostenere una conversazione e a volte le zie traducevano. 

Altri italiani che ho conosciuto durante gli anni in America mi raccontavano di quanto avevano sofferto a causa della lingua, per il fatto di non saper parlare bene né l’inglese e né l’italiano. Una cugina di mia madre, nata in America, mi ha raccontato che durante un viaggio con i suoi genitori in Italia avevano preso il treno per andare da Roma in Calabria. Sul treno lei ascoltava gli altri passeggeri parlare un Italiano che non aveva mai sentito prima, e, rivolgendosi ai genitori, aveva domandato in inglese: “Come parlano bene, ma perché voi non parlate come loro con noi?”. Il padre le rispose con amarezza- “Perché noi non sappiamo parlare l’italiano come loro”. 

Ascoltando le diverse storie di parenti e amici sul problema della lingua ho capito che la prima generazione arrivata negli USA acquisiva l’inglese non solo per sopravvivere e socializzare nella nuova comunità (a quei tempi gli italiani vivevano in comunità completamente italiane e tra di loro si capivano molto bene) ma perché l’inglese era necessario a capire i propri figli e i nipoti, i quali andando a scuola e frequentando amici americani imparavano a parlare solo l’inglese e non acquisivano la lingua italiana o il dialetto dai loro genitori.

Tuttavia, e nonostante la buona volontà degli italiani capirsi parlando due lingue diverse non era facile. Il problema della lingua era sempre presente e a volte tra una generazione e l’altra si creavano dei problemi d’incomprensione. Una delle zie di Brooklyn mi ha raccontato un esempio di malinteso tra lei e sua figlia quando andava alle elementari e poi tornava a casa parlando in inglese. Spesso, la figlia al ritorno da scuola faceva domande alla mamma chiedendo “why?” (perché) ma la zia non capiva la parola inglese e pensava che sua figlia dicesse “guai” a lei, e così senza motivo si arrabbiava sgridando la figlia. La zia raccontava questa storia con molta tristezza ripetendo che non capiva sua figlia quando parlava con lei. Questo è un esempio di come una semplice parola poteva creare crisi emotive in famiglia. Le incomprensioni esistevano anche tra una comunità italiana e l’altra, per esempio tra le comunità di Brooklyn e quelle del Long Island c’era molta differenza non solo di livello sociale, ma anche di modo di vivere, di parlare e di pensare. Gli italiani nel Long Island s’integravano con gli americani e acquisivano l’inglese velocemente, mentre quelli di Brooklyn mantenevano le loro tradizioni e la loro lingua. 

La lingua è anche percepita come mezzo di controllo, e molti italiani emigrati a New York negli anni '70 dopo 5-10 anni di permanenza a New York rimpatriavano per il problema della lingua, ma non per il motivo di non saper parlare l’inglese, ma perché non sopportavano il linguaggio italoamericano. Conosco molte famiglie che erano emigrate a New York durante gli anni '70, i quali si erano fatti una posizione, comprato una casa e magari anche aperto un negozio, ma per non vedere i loro figli, nati in America, crescere in un ambiente americano senza saper parlare l’italiano hanno rinunciato a tutto per ritornare in Italia. Questi italiani sono rimasti in Italia e anche i loro figli nati in America, anche se oggi molti di loro si sono pentiti di averlo fatto. Gli italiani emigrati negli anni '70 parlavano italiano, e avevano una mentalità diversa da quelli arrivati molti anni prima. Molti di loro non riuscivano ad accettare l’idea che i loro figli, nati in America, crescessero parlando loro l’inglese, o un italiano misto con l’inglese. 

La lingua è la nostra identità, e sia nelle comunità e sia sul lavoro siamo valutati secondo la lingua che parliamo e come sappiamo esprimerci con gli altri. Se parliamo bene e sappiamo più di un idioma, siamo stimati e rispettati. Infatti gli ostacoli, basati soprattutto su pregiudizi stereotipati, che hanno etichettato gli Italiani in Italia e all’estero e gli italoamericani hanno molto a che fare con la lingua parlata. 

 


FilomenaFilomena Fuduli Sorrentino, insegna alla South Middle School, ECSD, Newburgh, NY.  Nata e cresciuta in Italia, calabrese, vive  a New York dal 1983. Diplomata alla scuola Magistrale in Italia, dopo aver studiato alla SUNY, si è laureata alla NYU- Steinhardt School of Culture, Education, and Human Development, con un BS e MA in Teaching Foreign Languages & Cultures.  Dal 2003 insegna lingua e cultura italiana nelle scuole pubbliche a tempo pieno e nelle università come Adjunct Professor. È abilitata dallo Stato di New York all’insegnamento nelle scuole pubbliche delle lingue italiana 1-6 & 7-12, ESL K-12 e spagnola 1-6 & 7-12.

 

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Filomena Fuduli Sorrentino

Filomena Fuduli Sorrentino

Calabrese e appassionata per l’insegnamento delle lingue, dal 1983 vivo nel Long Island, NY. Laureata alla SUNY con un AAS e in lingue alla NYU con un BS e un MA, sono abilitata dallo Stato di New York all’insegnamento K-12 in italiano, ESL e spagnolo. Insegno dal 2003 lingua e cultura italiane nelle università come adjunct professor e come docente di ruolo in una scuola media del Newburgh ECSD. Nel mio tempo libero amo scrivere, leggere, cucinare, ascoltare musica, viaggiare, visitare i centri storici (soprattuto italiani) e creare cose nuove. Tra le mie passioni ci sono la moda, il mare e la natura.

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