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April 22, 2012
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INTERVISTA/ Poesia sulla vecchiaia

Laura CaparrottibyLaura Caparrotti
Time: 9 mins read

«Le parole sono importanti». Così dice Michele Apicella, interpretato da Moretti in “Palombella Rossa”, ad un giornalista che ha appena schiaffeggiato per aver usato parole banali e prive di contenuto. per Moretti e infatti ogni volta che risponde ad una domanda, sembra calibrare tutto quello che dice con la precisione del certosino, senza quelle difficoltà e ostilità di cui il regista è tacciato da sempre. In circa mezz’ora di intervista tocchiamo vari argomenti, dallo sport a New York, fino allo stato del suo cinema a Roma, il Nuovo Sacher, di cui mi dice: «Non c’è cambio generazionale, nel senso che i giovani non ci vengono. Un mio amico ha fatto una battuta. Mi ha detto “hai aperto il cinema e il tuo pubblico aveva trent’anni, ora ne ha cinquanta e presto ti ritroverai senza pubblico».

Chiedo del documentario “The last costumer”, che racconta di una farmacia di quartiere a Manhattan e del giorno in cui venne chiusa, perché il palazzo veniva demolito per fare posto ad un grattacielo: «Ero qui per promuovere il mio film “La stanza del figlio”, quando sentii che la ragazza della distribuzione, che mi accompagnava, consolava qualcuno al telefono. Siccome sono impiccione, chiesi cosa fosse successo e lei mi raccontò che i genitori erano costretti a chiudere la loro farmacia che era anche un importante punto di riferimento del quartiere. Quello era l’ultimo giorno di apertura. Io allora dissi “se mi procuri una telecamera, andiamo a fare delle riprese”. E così è stato».

Insomma, altro che schiaffi. L’unico momento in cui capisco di aver osato troppo è quando faccio a Moretti un complimento, sentito, perché i suoi film mi sono rimasti dentro, anche quelli che mi sembrava di non aver capito completamente.

Perché dopo averlo vissuto come colui che rappresentava un’epoca, in cui c’ero anche io, ora rivedo i suoi film con occhi diversi, apprezzandone i tagli, le inquadrature, i colori. Questa chiacchierata era però iniziata concentrandoci sul film “Habemus Papam” ora nelle sale cinematografiche americane. Visto che il film ha provocato reazioni di vario genere, riporto questa parte di intervista in modo quasi integrale, nella speranza che dissolva dubbi e dia qualche risposta.

Il tuo film ha suscitato reazioni diverse. C’è chi lo ha visto come una poesia sulla vecchiaia, chi ha dichiarato di aver riso ininterrottamente dall’inizio alla fine e chi invece si è arrabbiato parecchio perché il tuo non era un film di denuncia. Vogliamo dire da cosa è nata la voglia di fare un film come questo, ambientato in un certo luogo e con una storia decisamente particolare.

«Ti rispondo prima ai tre tipi di reazione. La prima, la vecchiaia. Diciamo che c’è qualcosa di mio anche in questo personaggio. Nonostante molti pensino che io sia molto megalomane, non ho mai pensato di interpretare il Papa; c’è però qualcosa di mio in quello smarrimento, in quelle angosce, in quella depressione che lui chiama con l’analista la sinusite psichica, che è un termine che io ho coniato per descrivere a me stesso e agli altri la mia situazione, non da sempre, ma da una ventina d’anni a questa parte. Proprio a proposito della vecchiaia, uno dei motivi per cui non ho mai pensato di interpretare il Papa è perché volevo che fosse un uomo anziano ad avere questa crisi, quest’angoscia, perché questo rendeva più drammatico, più forte il film. La terza, quelli che dicono che li ha fatti ridere: beh ovviamente mi fa piacere, io non considero la comicità né una forma di comunicazione inferiore, né superiore. Siccome penso di non cercare la comicità più facile, più greve, quando entro in un cinema e il pubblico ride ad un mio film, è una grande soddisfazione, una felicità anche perché penso di non cercare il consenso a tutti i costi, di non solleticare nei suoi istinti più facili, beh, insomma, è una grande soddisfazione. La seconda: quelli che non solo in Italia – penso addirittura a quello che scrisse la critica su Variety da Cannes – si erano immaginati che io facessi il film che volevano loro, cioè una specie di sceneggiatura che fosse stata un collage di tanti ritagli di pezzi di giornale sugli scandali. È strano poi come questo film, ancora oggi nel 2012, viene chiamato film di denuncia, quando invece è una specie di film di rassicurazione.

Perché oggi chi vuole sapere, sa con internet, in Italia con la Tv un po’ meno, ma ci sono documentari e così via. Non è come 50 anni fa che magari il cinema riusciva a raccontare quello che altri mezzi non facevano. Ci si può informare attraverso i giornali; voglio dire che gli scandali gravissimi del Vaticano sulla pedofilia, quello ancora più grave forse di aver coperto questi scandali, le cose brutte che riguardano la finanza vaticana, sono cose che comunque si sanno ed è strano che parte del pubblico e dei giornalisti vorrebbe sentirsi raccontare sempre la solita storia, come le favole della buonanotte. Ora, ripeto, sono problemi seri e scandali gravissimi che però non erano il mio film, poi magari un altro regista farà un film su questo, ecco ad esempio Costa Gavras, parecchi anni fa, fece “Amen”, un film su Pio XII e il Nazismo, a me piacque quel film, io volevo fare una cornice realistica verosimile in cui mi sono documentato per quanto riguarda l’ambientazione, le scenografie, la Cappella Sistina l’ho ricreata in grandezza naturale in un teatro di posa, i costumi, le procedure di voto del conclave, le liturgie, le preghiere, le processioni, una cornice verosimile però dentro la cornice il mio quadro, il mio Vaticano, con il mio Papa, i miei cardinali. Non me ne vanto, anzi un po’ me ne dispiaccio però è così, sono ateo, non sono credente: quando ero ragazzino credevo, poi sono stato abbandonato dalla fede, e allora non ho una posizione conflittuale. Io penso che alla volte paradossalmente sia più un credente che sia deluso dalle gerarchie ecclesiastiche, dalle posizioni del Papa. Un non credente può avere distacco e anche regalare umanità ad un conclave e uno fa dei film anche per immaginarsi una realtà diversa, migliore. Io non so cosa sia nella realtà un conclave, ma l’ho visto decine e decine di volte nei film e nelle serie tv, dove ci sono complotti, intrighi, lotte di potere, autocandidature, pacchetti di voti che si spostano da un candidato all’altro, lotte intestine. Non mi interessava questo tipo di conclave, io volevo fare un altro conclave, più umano, in cui il candidato favorito, che nel film si chiama Gregori, quando è sconfitto è il Cardinale più devoto al Papa, e ho dovuto faticare, perché il pubblico anche quando sta vedendo il film, si immagina di vedere un altro film. Ho dovuto spiegare bene a Renato Scarpa, che è l’attore che interpreta Gregori, che lui non c’è rimasto male, che anzi è il più affettuoso nei confronti di Michel Piccoli, dunque scrivendo la parte di Gregori e dirigendo Renato Scarpa, ho fatto in modo che il pubblico vedesse un altro Cardinale sconfitto, un altro conclave, più umano, in cui non ci sono tanti candidati che vorrebbero diventare papa, ma che invece hanno paura di essere scelti. Quella scena mi è venuta in mente, il “non io, non io, non io”, perché così i testimoni dei conclavi dicono sempre che i Papi, compreso Ratzinger -poi sta a noi a crederci oppure no – nel momento della loro elezione siano sgomenti, atterriti. Il caso più eclatante avvenne nel 1978 con Papa Luciani che non credeva alla possibilità di essere stato eletto. Fra l’altro io non credo che come dicono le leggende sia stato ucciso; molto tranquillamente, nel “Padrino parte III”, Coppola proprio fa vedere con nomi e cognomi che Papa Luciani venne ucciso. Io non ci credo, però lui fu proprio il caso più eclatante di Papa che proprio non credeva ai propri occhi assistendo alla propria elezione. Leggendo di questo sgomento, di questo senso d’inadeguatezza dei Papi appena eletti, mi è venuta in mente quella scena in cui tutti sperano di non essere eletti».

Allora da cosa è nato “Habemus Papam”, perché lo hai iniziato a scrivere? 

«Innanzitutto questa è una storia di una rinuncia, ma non vuole essere un proclama in favore della rinuncia alla responsabilità al potere sempre e comunque; è la storia della rinuncia di quest’uomo, in questo film. Se fosse stata la rinuncia di un uomo politico, di un manager di Wall Street, sarebbe stato un film più piccolo, più stretto, più misero.In questo senso, se io racconto il senso di inadeguatezza che ha persino il Papa, magar iè un film che può essere più ampio. Poi perché la prima scena che ho scritto è stata quella di un Papa appena eletto che sta seduto e che non riesce a fare quei pochi metri che poi lo fanno affacciare sulla Piazza di San Pietro, lo fanno affacciare sul mondo. Quella prima scena, in cui lui scappa via urlando, è stata la prima immagine del film. Piccoli è stato sempre la mia speranza, ma non ha condizionato questa idea. Io prima ho scritto una prima stesura, tre anni fa, all’inizio dell’estate, il film l’ho girato due anni fa e un anno fa è uscito prima in Italia e poi dappertutto. Siccome non è la sua lingua l’italiano e siccome non è che vado a chiamare Michael Piccoli e poi lo doppio. Ma siccome non ero sicuro che lui fosse stato in grado di recitare tutto in italiano, gli ho fatto un provino. Mi ha fatto andare a Parigi, il quattordici agosto, forse per vendicarsi di avergli chiesto un provino, e ha letto la parte. Sono convinto che lui abbia afferrato meglio il personaggio di quanto abbia fatto io».

 

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Laura Caparrotti

Laura Caparrotti

Ho cominciato a fare teatro nell'ingresso di casa mia, a Roma. Poi sono venuti i maestri, la laurea in discipline dello spettacolo e le tournée. Nel 1996, New York, nello storico The Kitchen. Vent'anni dopo sono ancora qui. Ho fondato una compagnia, la Kairos Italy Theater, specializzata in cultura italiana, e In Scena! Italian Theater Festival NY, un festival che porta il nostro teatro in tutti i distretti della città. Il teatro è la mia grande passione, insieme al ballo e alla (magggica) Roma. A New York ho anche iniziato a scrivere (proprio con Stefano Vaccara nel 1997), a insegnare teatro, a fare voice over e la dialect coach. Il tutto condito da un inconfondibile – ma affascinantissimo, mi dicono – accento italiano.

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