Stefano Vaccara è il factotum di USIT Media e Andrea Mantineo è il direttore di America Oggi. Sono miei amici e sono valenti giornalisti. Ambedue hanno pubblicamente sperato che nel voto dell’altro giorno fosse Barack Obama a prevalere su Mitt Romney e anch’io speravo che a un certo punto della tarda serata Romney annunciasse di avere appena telefonato a Obama per congratularsi della sua vittoria. La cosa si è regolarmente verificata e i sostenitori di Obama, altrettanto regolarmente, hanno dato il via all’entusiasmo, ai sorrisi, agli abbracci l’un l’altro e all’agitar delle bandierine.
Tutto come l’altra volta, insomma, con la sola differenza che le figliole di Barack Obama sono quattro anni più grandi e si sono fatte più carine. Davanti al televisore, lontano a parecchie migliaia di miglia, osservo quella frenetica allegria, mi piacerebbe parteciparvi ma non posso proprio perché c’è un tarlo che mi tormenta. E se dovesse finire che l’unica differenza rispetto a quattro anni fa fosse soltanto la crescita delle ragazze di Barack Obama? E se dovesse finire come quattro anni fa, quando tutti avevano salutato finalmente l’arrivo di un presidente capace di pensare e ragionare, dopo l’ignominia di George W. Bush, e poi dovettero rassegnarsi ad un presidente che parlava bene ma poi prese a razzolare male, anzi a non razzolare per niente, lasciando le decisioni a coloro che avevano da speculare e guadagnare.
Il suo ingresso alla Casa Bianca, quattro anni fa, era sembrato l’arrivo del messia atteso per millenni. Dal mondo intero arrivarono congratulazioni, dichiarazioni di amicizia, offerte di collaborazione, richieste di aiuto, indicazioni di azione e insomma tutto ciò che farebbe chiunque – magari tremando – al cospetto del messia. Tutti erano sicuri che questo giovane signore avrebbe reso il mondo più giusto, più onesto, più pacifico, più sorridente, più amichevole, magari anche più bello, più… più… tutto quello che si spera.
E tanto forte era la certezza, che la commissione di Oslo, quella che assegna il Premio Nobel per la pace, conferì a Obama il premio “sulla fiducia”, nel senso che non premiò ciò che aveva fatto, ma ciò che avrebbe sicuramente fatto nell’immediato futuro.
La realtà, purtroppo, fu contraria. Il suo arrivo alla Casa Bianca coincise con la grande crisi provocata dai delinquenti della finanza. Lui che fece? Consigliato da chissà chi, erogò altri soldi ai delinquenti. Il suo arrivo alla Casa Bianca coincise anche con tanta altra gente che era morta nella guerra che Bush aveva inventato. Lui che fece? Consigliato da chissà chi, continuò la guerra e così alle migliaia di morti ammazzati da G. W. Bush si unirono i morti ammazzati da Barack Obama. Sempre nei giorni in cui la famiglia Obama stava organizzando il suo abitare nella Casa Bianca, fra la gente dell’America latina prese a serpeggiare l’idea che forse la più grande potenza del mondo avrebbe deciso di piantarla di coprirsi di ridicolo e di infamia per non accettare che Cuba viva come le pare e piace. Che fece il titolato del Nobel? Calcolò il tempo trascorso e celebrò, parafrasando un titolo popolare nell’America del Sud, “cinquanta anni di stupidaggine”.