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September 18, 2011
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September 18, 2011
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INTERVISTA/Pensare all’italiana

Vincenzo PascalebyVincenzo Pascale
Time: 5 mins read

a sinistra Roberto Esposito

 

ITALIANISTA di formazione (si pensi in particolare ai suoi studi su Machiavelli), Roberto Esposito (nella foto) insegna Filosofia Teoretica presso l’Istituto Italiano diScienze umane, di cui è vicedirettore. I suoi libri sono tradotti in diverse lingue, tra cui il francese, l’inglese, il portoghese, lo spagnolo il tedesco e il giapponese.

Lei è tra i pochi studiosi italiani di Scienze umane tradotti in lingua inglese. Questo interesse verso la Sua ricerca filosofica arriva a distanza di un ventennio o più dall’interesse angloamericano per le ricerche di studiosi quali Umberto Eco e Gianni Vattimo. Come spiega questo interesse rinnovato verso il pensiero filosofico italiano?

«Come ho cercato di spiegare nel mio ultimo libro, “Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana” (Einaudi 2010), c’è un significativo ritorno d’interesse, non solo in America, ma un po’ dovunque, dalla Spagna, alla Germania, all’Argentina, al Giappone, per la filosofia italiana contemporanea, in particolare per quella corrente di pensiero che ha sviluppato il tema del rapporto tra filosofia, politica e vita biologica. L’attenzione alla mia ricerca personale va situata in questo orizzonte. Oggi la riflessione italiana, non solo mia, ma di autori come Giorgio Agamben e Antonio Negri, su quella che è stata definita (da Michel Foucault) biopolitica, è diventata centrale nel dibattito filosofico contemporaneo. Del resto i pensatori italiani che più si sono imposti, nel corso dei secoli sono sempre stati, sia pure in modo diverso, autori che hanno guardato all’intreccio e alla tensione tra le categorie della storia, della politica e della vita. Basti fare i nomi di Machiavelli, Bruno, Vico, Croce, Gramsci. Se altre tradizioni hanno messo a fuoco i problemi logici ed epistemologici (nel mondo anglosassone), quelli metafisici ed ermeneutici (nell’ambito tedesco) o quelli legati alla costituzione della soggettività e poi alla sua decostruzione (in area francese), il grande pensiero italiano si è interrogato sui grandi temi della vita civile, dell’impegno politico, della storicità dell’esperienza umana».

La sua ricerca verte da un alto sulla rivisitazione del concetto di Comunità (communitas) e dall’altro lato sul concetto di Biopolitica. Può spiegarci il suo approdo intellettuali a questi temi e cosa li rende "appealing" anche ad un pubblico di non specialisti.
«L’interesse per il tema della comunità – intesa non come le ‘piccole patrie’ dei comunitaristi americani, ma come ‘l’essere in comune’ degli uomini e delle donne – è nato con il crollo rovinoso del comunismo, da parte di pensatori (penso anche ad autori francesi come Bataille, Blanchot, Nancy) che non si sono accodati al ‘pensiero unico’ neoliberale. In particolare io ho connesso il tema della comunità al suo rovescio logico ed etimologico, vale a dire alla categoria di ‘immunità’,intesa in senso insieme biologico e giuridico.
Quanto alla riflessionèe ‘biopolitica’, essa è diventata centrale quando le categorie politiche classiche della modernità (sovranità, rappresentanza, individuo) sono diventate sempre meno capaci di descrivere il mondo globale in cui viviamo. È evidente che temi come le relazioni interumane tra identità e differenza o il rapporto sempre più diretto tra potere e vita biologica interessino un pubblico ampio assai più di temi tecnici e specialistici come
quelli della metafisica classica o della filosofia analitica».


Lei oltre a far parte del SUM (istituto Italiano di Scienze Umane) fa parte anche del NISA (Netwoek Italian Scholars Abroad che terrà il prossimo convegno dal 17 al 20 novembre alla UCLA di LA. Sono sufficienti a suo avviso queste due istituzioni per interessare la accademia angloamericana alla ricerca ed alla comprensione della storia del pensiero umanistico italiano? Quale ruolo possono avere i nuovi media nell’esportare e far conoscere l’immenso patrimonio umanistico italiano?
«Personalmente non faccio parte del NISA (che riunisce i professori degli Stati Uniti e del Canada nati in Italia). Il NISA ha un suo comitato scientifico composto da vari professori, tra cui Giulia Sissa, Nadia Urbinati, Aldo Schiavone e Remo Bodei. Questa importante organizzazione è nata con lo scopo di collegare i professori americani (un gran numero) di origine italiana con i maggiori studiosi italiani e in particolare con l’Istituto Italiano di Scienze Umane (già connesso ad una rete europea di studi umanistici con le maggiori Scuole Superiori francesi e tedesche). Ogni due anni il NISA promuove un grande convegno, una volta in Italia ed una volta negli Stati Uniti. Quest’anno il tema del convegno, che si terrà nell’Università di Los Angeles, intitolato ‘Life’, è costituito dal rapporto della ragione con le passioni e le emozioni. Esso costituirà anche una riflessione sulla specificità della storia e della cultura italiana. Ci auguriamo che i grandi media diano il dovuto rilievo all’evento. È evidente che i media possano giocare un ruolo decisivo nel porre al centro dell’attenzione mondiale il grande patrimonio culturale e artistico italiano».

Lei da studioso ha visitato vari campus universitari americani. Cosa la attrae di questo sistema formativo (umanistico)? Vi sono spazi per una proficua interazione con il sistema italiano ed i docenti italiani?
«In effetti conosco quasi tutte le grandi università americane – da Harward, a Cornell, alla UCLA. Quello che mi ha colpito in positivo del sistema universitario americano è il fatto che abbia al suo centro gli studenti. Nei seminari cui ho partecipato, si può dire che, dopo la lezione, essi parlino anche più dei docenti, con domande, osservazioni, interventi cui richiedono risposte chiare ed esaurienti. Da questo punto di vista è immaginabile una possibile sinergia con la tradizione europea, che ha ancora al centro la figura e gli interessi del docente. Credo si debba arrivare ad un fruttuoso equilibrio tra questi due tipi di sistema di insegnamento».

Perché le università meridionali, per il settore umanistico, (penso alla Federico II , ma non solo) sono spesso fuori dal circuito di collaborazione internazionale con le università angloamericane? Pregiudizio o altro?
«A questa domanda non sono in grado di rispondere. Non mi pare che sia così, soprattutto per tutta l’area scientifica. Prima di entrare nell’organico del SUM, comunque, ho insegnato nell’Istituto Universitario Orientale, interamente rivolto a questioni internazionali e ovviamente in rapporto con il mondo culturale orientale».

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Vincenzo Pascale

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