Alla fine, come spesso accade dopo vicende clamorose, arriva perentorio il monito del presidente della Repubblica. «I nostri cittadini devono poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione rispetto ai loro comportamenti». Sono le parole di Sergio Mattarella, il 18 giugno scorso, nella cerimonia commemorativa dei magistrati vittime di terrorismo e mafia, anche a commento delle vicende emerse con «il caso Palamara», in «amaro contrasto con l’opera dei servitori dello Stato».
E’ l’ennesimo richiamo, di fronte all’esigenza di rinnovamento, provocato dal recente scandalo tra le toghe. L’esortazione a fare presto. L’invito a mettere mano a riforme urgenti per invertire una direzione di marcia sempre più dannosa per la Repubblica, fondata sul rispetto del diritto. Ma quali interventi sono necessari? In quale direzione muoversi?
I fatti recenti non hanno rivelato nulla che già non si sapesse sull’intreccio perverso tra giustizia, partiti, correnti. Per questo l’esortazione del presidente, vibrante e accorata, ha un sapore amaro: l’ennesima tirata di orecchio a chi dovrebbe ascoltare, a coloro che dovrebbero mettere mano a riforme radicali. La constatazione che lacune, errori, deviazioni stiano determinando guasti irreparabili. Falle difficili da colmare, senza una visione d’insieme, facendosi carico del coraggio di cambiare passo.
Il «caso Palamara», da ultimo, ha rappresentato un esempio estremo di degenerazione clientelare. Sentiamo ripetere gli stessi concetti da tempo, ci sembra sempre di aver raggiunto un limite difficile superare. Non è così. Ogni volta si aggiunge qualcosa. L’asticella è spinta più in alto, si fa un altro passo verso l’abisso. Accade nonostante le proteste dell’opinione pubblica e le buone prassi adottate dalla stragrande maggioranza dei magistrati. Perché a prevalere, non va dimenticato, è l’onestà che anima il maggior numero di essi, così come fuori discussione è la loro abnegazione, il senso della legalità, ribadito anche dal presidente Mattarella nell’anniversario della strage di Capaci. L’impegno praticato nel quotidiano, non solo nei casi estremi della lotta al terrorismo e alla mafia.
Perché i magistrati, nonostante la desolazione degli ultimi casi, operano diversamente, non sono affatto inclini agli intrallazzi. Ce lo diciamo tra noi per tranquillizzarci, e va detto a uno come Palamara, a fronte delle insinuazioni, dei messaggi in codice che diffonde da qualche tempo. Accusato di corruzione, sospeso da funzioni e stipendio, ora anche espulso dall’associazione magistrati, non ha «fatto tutto da solo», potrebbe dire i «nomi degli altri». L’ultima difesa disperata per non affogare da solo? Quali rivelazioni? In ogni caso, messaggi pericolosi capaci di trasformarsi – ingiustamente – in un’accusa generica e immotivata rivolta a tutta l’istituzione.
Non ci si fa mai l’abitudine al peggio, qualcosa aumenta sempre lo sdegno degli onesti, e dunque rende impellente un deciso intervento per salvaguardare il lavoro di tanti e soprattutto l’integrità della magistratura in uno stato di diritto. L’incontro del maggio 2019 in un albergo romano tra consiglieri del Csm, politici, esponenti dell’associazionismo – documentato dal trojan messo nel telefonino di Palamara – è (al momento) l’ultima frontiera di questo processo degenerativo, per la caratura dei personaggi (appartenenti e non alla magistratura, da Lotti a Ferri, ai membri del Csm, allo stesso Palamara), i loro ruoli (spesso di cerniera tra politica e giustizia), la sede (altro che informale, un salotto) e l’ora (notturna) dell’incontro, gli argomenti in discussione (nomine dei vertici degli uffici). Una «questione morale» di primaria grandezza. Difficile immaginare qualcosa di più compromettente.
Ma è solo la concretizzazione occasionale di radicati meccanismi deviati, documentati dalle 60.000 pagine di registrazione dei messaggini trovati nel telefono dello stesso Palamara. Una miniera nella quale stanno pescando tanto la procura della Cassazione (già 10 iniziative disciplinari), quanto la procura di Perugia (ora assegnata a Raffaele Cantone) per la corruzione contestata allo stesso Palamara.
Rimanendo al tema dell’operato del Csm, organo di autogoverno della magistratura (“togati” nominati dagli stessi magistrati e “laici” indicati dal parlamento), attraversato dalle trame oscure di Palamara e dei suoi amici, è noto che proprio l’appartenenza alle correnti sia il viatico privilegiato per le nomine più importanti. Con perdita di autorevolezza per la magistratura e per i singoli che ne beneficiano.
A questa pericolosa deriva, dovuta alla annosa questione della degenerazione delle correnti in strumenti di pressione, si cerca di opporre rimedio con progetti di riforma legislativa, che riguardano soprattutto i meccanismi di elezione dei membri del Csm, posto che la stessa Costituzione prevede che essi sia appunto frutto di una elezione. Per questo sembra superata (ma non si sa mai) la bizzarra idea dei 5S di ricorrere al “sorteggio” per queste elezioni, ennesima traduzione del principio di incompetenza come bussola delle decisioni.
Eppure le correnti, di per sé espressione legittima e utile della pluralità delle idee, erano nate con lo scopo alto di alimentare il dibattito interno. Prima di diventare centri di assistenza e di protezione delle ambizioni dei singoli. Pessimo lo scenario offerto da troppi casi in cui le nomine a ruoli prestigiosi sono state palesemente determinate da logiche di spartizione.
Sarà difficile, osservando le proposte in cantiere, che basti la tecnica legislativa a salvarci da prassi deprecabili, senza un diverso scenario, che metta in primo piano l’esigenza del «buon governo», come regola di giudizio per l’elezione a posti importanti o le nomine negli incarichi direttivi. Anche le migliori norme possono essere mal utilizzate, strumentalizzate per fini di parte, aggirate contro il merito, la qualità, la serietà. Soprattutto succede se manca l’impegno della politica a fare un passo indietro, a rinunciare a mettere comunque ipoteche sul futuro, secondo la logica eterna di cambiare tutto perché nulla cambi davvero.

Il Presidente Sergio Mattarella in occasione della seduta di insediamento del Consiglio Superiore della Magistratura nella nuova composizione (Foto Quirinale.it)
Eppure il recupero della moralità pubblica, dell’onestà professionale, come criteri di tutte le scelte, non può rinunciare a interrogarsi su questo piano. Non si può abbandonare il proposito di cercare modifiche normative utili, anche se potrebbero non bastare affatto, come avvenuto in passato, con il fallimento di tante proposte. Uno stallo, l’incapacità di fare argine al malcostume. Accadrà anche stavolta? È davvero impossibile cambiare i sistemi di selezione del personale, dal Csm agli incarichi negli uffici giudiziari? Forse non è troppo tardi per modificare sistema elettorale e funzionamento del Csm.
Se il vizio è la scelta di tanti (troppi) secondo l’appartenenza piuttosto che per il merito, è necessario accrescere tutti quegli strumenti che possano valorizzare proprio la competenza dei singoli e la trasparenza nelle scelte, depotenziando il ruolo delle correnti. La mediazione dei gruppi organizzati, e persino della politica, trae forza da un deficit di esposizione e di comunicazione della competenza professionale. Spesso l’aiuto delle correnti – d’intesa con la politica – supplisce al difetto di consenso sociale-professionale, e di autorevolezza, dei singoli aspiranti.
Non basta invocare un maggior legame tra i concorrenti (nel caso dell’elezione del Csm) e il territorio, se manca la capacità pratica di costoro di farsi conoscere ed apprezzare dal proprio elettorato, cioè gli altri magistrati. Così come non serve invocare genericamente il requisito del merito nella scelta dei capi degli uffici se non vi sono procedure di selezione, corsi vincolanti di formazione, ed infine meccanismi palesi e controllabili di scelta. Si tratta di potenziare la pubblicità delle sedute, la prevedibilità delle scadenze concorsuali, l’obbligatorietà delle motivazioni. Se tutto ciò non impedisce manovre di corridoio, almeno le ostacola e offre qualche rimedio agli onesti.
Oggi c’è anche il monito severo del presidente della Repubblica a ricordarlo. I magistrati devono riguadagnare sul campo la fiducia incrinata da troppi scandali, non possono più indugiare o avere esitazioni. Non perché ci sia qualcuno o qualcosa a chiederlo, o perché gli scandali abbiano reso incandescente la situazione. Ora che stiamo toccando il fondo, è imprescindibile provare a risalire la china. Serve proprio colmare le lacune che abbiamo sempre trascurato, rendendo intollerabile la situazione.