“Leo, qual’è la parte che ti è piaciuta di più?”
“Senz’altro il muro delle parole.”
“E perché?”
“Mi interessava capire l’origine delle parole inglesi…”
Non posso biasimare mio figlio. Il muro delle parole offre uno spettacolo avvincente portando in scena 1000 vocaboli che, a detta di chi ha allestito il museo della lingua Planet Word, non sono neppure l’1% di tutte le parole inglesi. Lo spettacolo al museo inizia così. Ma partiamo dall’inizio.

La lingua è un aspetto della nostra vita che ci sembra così naturale che qualcuno potrebbe chiedersi qual’è il senso di un museo delle lingue. È come se avessero creato un museo di come si cammina o come si beve un bicchier d’acqua. Eppure il senso c’è, ma per spiegarlo occorre capire prima alcune cosine.

La consapevolezza metalinguistica
Vivere all’estero significa giocoforza imparare lingue nuove.
Imparane una oggi, imparane un’altra domani, ecco che si finisce per farsi domande che vanno oltre il lessico e le regolette grammaticali, domande che riguardano le strutture di alto livello delle lingue e il senso profondo della comunicazione tra le persone.
Se io vi chiedessi cosa avete fatto domenica scorsa, voi mi raccontereste che siete andati in pasticceria a comprare dieci paste per il pranzo domenicale, o che avete fatto una passeggiata nel bosco con la famiglia, o che avete giocato a tennis con quel pirla di vostro cugino, o che, causa lockdown, siete rimasti in casa a bingiare un’intera serie televisiva.
Nel raccontarmelo, non vi soffermereste neanche un attimo a soppesare le parole, bensì lascereste che quelle frasi fluiscano liberamente dalle vostre labbra con noncalanza. Quella è la funzione linguistica naturale che noi tutti possediamo, e usiamo con la stessa disinvoltura con cui beviamo un bicchiere d’acqua.
Adesso, immaginate invece di riflettere su ogni parola che utilizzate nel vostro resoconto. State usando un italiano “puro” o inframezzate il discorso con qualche parola dialettale? Dite “bingiare”, “fare scorpacciata di serie televisive” o semplicemente “guardarsi due stagioni di Breaking Bad in un giorno solo”? Vi fermate a pensare se l’uso di un’espressione piuttosto che un’altra potrebbe ostacolare la comprensione di chi vi ascolta? Usate il congiuntivo (diafasico) oppure ripiegate sull’indicativo per non apparire troppo pomposo?
Ecco, se vi fate queste domande, siete un po’ come me, un nerd della lingua; e quella che avete sviluppato è una consapevolezza metalinguistica: oltre a usarlo, sapete ragionare sulla natura vera di questo formidabile strumento.
Se parlate due o più lingue, questa capacità tenderete a svilupparla in modo naturale. A furia di molte incomprensioni e qualche figuraccia, avete imparato a osservare e a fare ricerche. E avete capito che le lingue non sono isomorfe tra loro: il fraintendimento è sempre in agguato e non sempre esiste una traduzione semplice e diretta di parole ed espressioni da una lingua ad un’altra.
Ad esempio, arriverete a capire qual’è la differenza tra exploit e harness (entrambi traducibili come ‘sfruttare’ in italiano), e sobbalzerete vedendo che i giornali hanno tradotto bitch con puttana, anziché con stronza, tramutando la notizia che intendevano dare in una mezza bufala.
Ecco. La consapevolezza metalinguistica è questa: realizzare che le parole, nel senso più ampio possibile del termine, sono importanti. O, citando le parole di Barack Obama che presenta l’iniziativa, words have power.

Sia chiaro. La consapevolezza metalinguistica è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Dal momento in cui la acquisite in poi, ogni frase o parola che leggerete rischia di dirottarvi su pensieri e considerazioni estranei all’argomento trattato. Un trafiletto da tre minuti di lettura, può prenderne dieci, o anche venti. Vi troverete a googlare parole ed espressioni per verificarne l’esistenza, il significato, l’aderenza ad una certa “norma dotta” o anche semplicemente la frequenza d’uso.
I vocabolari saranno vostri alleati, ma comincerete a non fidarvi più ciecamente di loro non appena realizzerete che essi non sono che un pallido e sfocato riflesso della lingua che si vantano di descrivere (e, a volte, prescrivere, ma non divaghiamo troppo). L’insieme di parole e costrutti che una comunità di parlanti realmente usa e capisce è ben più ampio di quello che un libro riuscirà mai a catturare nel momento in cui è stampato su carta (per non parlare della lingua nei mesi e negli anni a venire).
Una mezza maledizione, quindi. D’altro canto, questa attenzione certosina a parole, grammatica e pronuncia, è una qualità fondamentale per imparare nuove lingue, e anche semplicemente per imparare a scrivere in modo efficace e convincente nella propria madrelingua.

Perché un museo della lingua?
Torniamo alla domanda di partenza. Se l’inglese già lo parliamo, quindi, perché ci serve un museo? Il motivo è presto detto: portare i figli a questo museo significa fargli fare il primo passo verso la consapevolezza metalinguistica, fargli capire come nascono le parole, cosa rappresentano, come possono essere usate, come il loro significato possa cambiare nel tempo, e tutto quello che c’è di annesso e connesso a questo formidabile mezzo di comunicazione tra umani (e non solo), incluse le gigantesche implicazioni che l’uso della lingua ha sul ruolo che possiamo svolgere nella società.

Descrittivisti e prescrittivisti
Se avete letto qualche mio articolo in passato, già sapete dei due approcci, descrittivista e prescrittivista, con cui linguisti e grammatici si pongono rispetto alla lingua.
Se avete fatto la scuola in Italia è molto probabile che abbiate introiettato il credo prescrittivista. C’è un test facilissimo per vederlo. Se la frase “la grammatica è come la matematica e non è un’opinione” vi suona condivisibile, complimenti: durante le lezioni di catechismo grammaticale delle maestre eravate molto attenti, vi meritate il titolo di prescrittivista e sarete accolti a braccia aperte dal folto gruppo di grammarnazi all’amatriciana che si congrega online sui social italiani. Probabilmente non scriverete mai nulla in vita vostra. Avrete troppa paura di “sbagliare”.
Se per lavoro scrivete, invece, è probabile che non la vediate proprio così la cosa. Se le regolette delle maestre hanno (forse) senso nella scuola dell’obbligo per offrire un riferimento ai bambini che imparano, gli adulti hanno necessità comunicative pratiche, e cosa si può usare e cosa no lo decidono parlanti e scriventi.
Alla fine della fiera, una lingua è definita da quello che le persone capiscono. La lingua è un’entità viva che si trasforma per servire le esigenze cognitive e comunicative di una comunità. Imbragare le proprie possibilità espressive con delle regolette rigide non ha senso. Parole nuove nascono e parole vecchie muoiono (Languages evolve and that’s okay (O.K.?)). Costrutti grammaticali un po’ arzigogolati, derivati dall’osservazione di scrittori colti e sepolti dei secoli passati, vengono rimpiazzati da costrutti più agili e più economici. Non c’è da farne una tragedia.
Se la vedete anche voi così, siete descrittivisti dentro. Gli hater dei social network non perderanno occasione per farvi sapere che vi odiano. Ignorateli, oppure sparate a vista come faccio io: nessuno di quelli ha mai scritto una cippa in vita in sua per paura di essere fatti a pezzi da quelli della loro tribù.
Se volete il mio punto di vista poi, sedetevi, perché sto per farvi una rivelazione che potreste trovare sconvolgente: i parlanti nativi di una lingua, per definizione, non fanno errori. E qui mi fermo. Questa mia affermazione può sembrare estrema, e forse lo è, ma lasciatela “in infusione” per un po’, come una bustina del tè, ve lo consiglio. I linguisti sono scienziati della lingua ed evitano di dare giudizi sulla lingua delle persone. Se volete approfondire, consiglio l’articolo che ho già citato.

Un museo descrittivista
Ecco, ora che conoscete la differenza tra prescrittivisti e descrittivisti, avete la chiave di lettura del museo Pianeta Parola: chi lo ha progettato è chiaramente descrittivista.
Torniamo al muro delle parole, quello che è piaciuto a mio figlio. È lì che imparerete varie cosine sulla lingua inglese, a partire dal fatto che esso rappresenta la fusione di lingue germaniche e lingue romanze. Proprio per questo la lingua di Shakespeare è piena di “doppioni”, parole di origine germanica hanno spesso un cugino francese (o latino) che, almeno inizialmente, ambiva allo stesso ruolo. Le due anime della lingua hanno convissuto, trovando alla fine un impiego specializzato per ogni termine. E se le parole germaniche trovano più spesso utilizzo nel linguaggio concreto di ogni giorno, il lessico dei cugini d’oltralpe (si fa per dire) fa incetta di parole da usare nei registri alti e nel linguaggio figurato: il mare è deep, ma un pensiero è profound.
Unfriend o defriend
L’arrivo di nuove tecnologie ha imposto concetti nuovi e con essi la necessità dei parlanti di riferirsi a quelli in modo mutualmente comprensibile.
Qual’è il verbo corretto inglese per indicare la rimozione di qualcuno dalla propria cerchia di amici Facebook, unfriend o defriend? Se avete risposto “unfriend” significa che non avete capito quello che vi ho detto. Se avete risposto “defriend”, invece, idem con patate: rileggete la parte sul prescrittivismo. Entrambe le forme sono “ben formate” ed entrambe le forme sono usate dagli utenti. Se, nel tempo, i parlanti cesseranno di usarne una delle due, allora potremmo arrivare al punto dove un vocabolario legittimamente ne sconsiglierà l’uso. Ma al momento sono usate entrambe e quindi nessuno può arrogarsi il diritto di dire quale forma è “corretta” e quale no. Le lingue evolvono così, con buona pace dei prescrittivisti. Non stracciamoci le vesti quando vediamo una parola strana. Piuttosto chiediamoci i motivi per cui quella particolare parola o espressione è stata usata ed è stata usata in quella forma.
Ma il museo non parla solo di questo…

Le lingue del mondo e quelle in via di estinzione
Planet Word riguarda la lingua inglese principalmente, ma un museo di Washington non poteva esimersi dal dedicare una sezione alle altre lingue in questa “era dell’inclusività”. La sala con il grande mappamondo ci presenta gli ambasciatori virtuali di tante lingue del mondo. Piccola grande delusione: non c’è l’italiano purtroppo!
Un piccolo gazebo laterale mostra un video che parla delle lingue estinte o in via di estinzione, e di quelle che sono state vittima di una specie di pulizia etnico-linguistica, tra loro gli idiomi degli indiani d’America (il Lakota, ad esempio) e l’Hawaiano. Gli intervistati parlano della rimozione culturale di cui sono stati vittime e spiegano come preservare la loro lingua sia lo strumento principe con cui rimanere connessi alla cultura e alla terra dei propri antenati.

Trovo il discorso analogo a quello sui dialetti italiani, e sulla necessità o meno di preservarli. Discorso complesso. Bisogna preservarli? “Sì, certo” verrebbe da dire, istintivamente. D’altra parte penso anche che le culture egemoni degli imperi siano portatrici di progresso. Volenti o nolenti, lo sviluppo degli imperi avviene inglobando terre, culture e lingue, e uniformandole agli standard del conquistatore.
Se vuoi un impero (o anche solo una nazione) grande e forte, devi standardizzare dando una lingua comune a tutti. Le lingue minori (e i dialetti) sono gravosi da insegnare a scuola e da usare nella Pubblica Amministrazione. La spinta ad uniformare è forte. Quando ciò non è più un problema e la nuova lingua nazionale è patrimonio comune, allora se ne può riparlare: creare qualche corso sulle lingue in via di estinzione e dare loro un posto in un museo servirà quantomeno a ripulire le coscienze. La cosa vale per l’italiano, per l’inglese americano e per tutti gli imperi di cui ho sentito (anche se, confesso, bisognerebbe avere una laurea in Storia per trattare con autorevolezza questo aspetto).
Gli animali e il linguaggio
Anche gli animali comunicano tra loro, possiamo parlare di lingua anche in quel caso? Non voglio spoilerare troppo, ma posso dirvi che la risposta è no. L’unica possibile eccezione la offrono le scimmie Bonobo, il nostro parente più stretto; e dico questo non perché sia confermata la loro abilità linguistica, ma perché gli esperti non hanno ancora deciso in modo definitivo se i suoni e simboli con cui i Bonobo comunicano soddisfino i criteri che definiscono una lingua.

Per ora basta
Quello che vi ho raccontato è solo un assaggio. Il museo ha molti altri contenuti, spesso interattivi, in grado di intrigare grandi e piccini (purché anglofoni). Un portatore di disabilità spiega che le parole possono ferire. Una persona “non binary” vorrebbe poter ampliare l’uso di they/them in modo da coprire il suo caso: riferirsi a lei senza dover usare i pronomi he/she/him/her che gli vanno tutti stretti (“This is my friend Logan and their favorite color is fuchsia”).
Potrei parlare della parte che spiega i discorsi di personaggi famosi, dei libri e delle lavagne elettroniche per coinvolgere i visitatori più piccoli, del linguaggio dei neri e del linguaggio di genere. Potrei parlarvi del linguaggio della pubblicità, di quello dell’umorismo, di quello dei grandi discorsi alla JFK, o di quello della persuasione. Potrei parlarvi della stanza della musica con annesso karaoke (non stupitevi. Hanno anche dato un premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan tre anni fa). Potrei parlarvene, ma non lo faccio per non togliervi il piacere della scoperta quando ci andrete voi.
Non c’è biglietto, ma viene consigliato un contributo libero. Io ho dato $20 e penso che andasse bene. Si consiglia di prenotare online sul sito del museo (aperto dal giovedì al sabato, il museo, non il sito). Ricordatevi la mascherina.

Scheda del museo:
Nome: Planet Word
Luogo: Historic Franklin School, 925 13th Street NW, Washington D.C. (Stazione Metro: McPherson Square)
Orario: dalle 10 del mattino alle 5 del pomeriggio, da giovedì a sabato.
Prezzo del biglietto: gratuito, ma con una “donazione suggerita” di $15. A causa del coronavirus, vengono accolti solo venticinque (25) visitatori all’ora. Si consiglia di prenotare gli ingressi, anche se il museo potrebbe essere in grado di accogliere un numero limitato di visitatori senza prenotazione.
Misure di sicurezza: tutti i visitatori dai due anni di età in su devono indossare una mascherina, come da disposizioni sanitarie generali. I bambini devono essere accompagnati da un adulto in ogni momento. I gruppi devono rimanere insieme e praticare il distanziamento sociale dagli altri visitatori. Le penne per i touch screen sono fornite gratuitamente.
Informazioni: (+1) 202-931-3139 e planetwordmuseum.org.