
“Cos’è la giustizia senza la verità? Un vuoto simulacro, una complicata macchina burocratica fatta di incomprensibili rituali in cui l’opinione e l’inganno si confondono con il vero e il giusto. È proprio sul terreno della giustizia che si misura il livello di civiltà di un paese. Ne sanno qualcosa le vittime delle stragi e i loro congiunti. La sconfitta dell’Inquirente nella ricerca della verità è la sconfitta dello Stato”. (Paolo Itri, magistrato). Ho incontrato il Procuratore Antimafia, Paolo Itri, qualche mese fa a Napoli, prima della pandemia, dopo essere stata letteralmente folgorata dal suo libro “Il Monolite” storie di camorra un Giudice Antimafia”. Quando ci siamo visti mi sono ritrovata davanti un magistrato decisamente fuori dal comune: classe 1965, libro alla mano, storie criminali e un Harley Davinson scoppiettante. A quel punto, davanti a una pizza servita da un cameriere siciliano emigrato a New York e rientrato in Italia, ostinatamente fan di Donald Trump che ha personalmente conosciuto, con Paolo Itri abbiamo approfondito il suo racconto. Ha ragione, nella prefazione, Enzo La Penna, giornalista napoletano, storico dell’Ansa, quando scrive “un libro che si legge con lo stesso accanimento che può metterci un lettore di romanzi polizieschi o con la curiosità di chi ama scandagliare l’animo umano scoprendo aspetti ignoti e inattesi”.
Ma quel che mi ha colpito è perché un magistrato di quel calibro lasci l’Antimafia, e scelga, per un periodo di correre in un circuito “minore”. Il magistrato è di nuovo a Napoli, all’Antimafia. E la risposta l’ho trovata a pagina 267: “Dopo essermi rovinato la salute e aver rischiato la vita per far arrestare e condannare centinaia di camorristi, trafficanti di ogni genere e decine di colletti bianchi per reati di mafia e tangenti, alla fine mi vedo sopravanzare da certi colleghi di il cui maggior merito scopro essere quello di aver fatto parte di qualche Consiglio Giudiziario o di aver partecipato a questo o a quel convegno. Come è piccola l’Italia di furbetti e mammasantissima. E quanto è grande il disgusto di questo sistema a cui nessuno vuol mettere mano. A volte mi viene perfino il dubbio di aver pestato i piedi a qualcuno di troppo.” E scrive ancora “ Chiedo il trasferimento come sostituto procuratore in una piccola Procura del Sud Italia, una sede disagiata, una di quelle dove nessuno vuole andare perché si lavora troppo. Ma dove in compenso, ti viene data la possibilità di ritrovare la dimensione umana delle piccole cose e di restare solo con te stesso”.

Comprendo che un’anima ribelle come la sua, che non si è uniformato al sistema fatto di ipocrisia, doppiezza, e di leggi talvolta incomprensibili, “bizantinismi” veri e propri per chi poi deve interpretarle e applicarle, ai giochi di potere, alla proliferazione del crimine, ai colletti bianchi, prima o poi deve disintossicarsi e decidere di cambiare aria. “Il Monolite” è la storia di Paolo Itri, Procuratore alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli fino al 2011, che, per oltre dieci anni si è occupato di indagini delicate sulla camorra napoletana e sulla mafia, percorrendo l’Odissea del Crimine che si muove nel palazzo dove bene e male lottano fino all’ultimo sangue: il Tribunale di Napoli che, tra l’altro, sembra essere il più grande al mondo. Nel 2008 da Pubblico Ministero, Itri ha ottenuto la condanna all’ergastolo per Totò Riina, riconosciuto come mandante di cinque omicidi avvenuti nella tenuta dei Nuvoletta a Marano. Nel libro, il magistrato ricostruisce gli affari criminali tra omicidi, tradimenti e arresti passando dalla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo ai Nuvoletta, da Sandokan a Schiavone, fino alla Mafia di Totò Riina e Giovanni Brusca.

Tra le indagini più delicate la strage del Rapido 904 che in qualche modo anticipa quella che sarà la prima trattativa e la strategia del terrore di Cosa Nostra, della Camorra e della Banda della Magliana. Una strage che vede Cosa Nostra reagire ai pentiti come Buscetta e Contorno e che preannuncia le stragi di Capaci e Via D’Amelio e gli attentati dell’estate ’93. Ma le vicende sono tante e ci sono anche delle storie più quotidiane, più umane. E’ un libro che lascia il segno, che pone interrogativi, che spiega la macchina della Giustizia, che andrebbe letta ai giovani magistrati, ai giovani studenti, ed è vero quanto scrive nella recensione l’esimio professore Felice Casucci che “Grazie a lui, entriamo nell’intimità di una narrazione duplice, interna ed esterna, in un’asprezza che non ha risvolti edulcorati e tuttavia attenua le illusioni, salvaguarda lo spirito. Non puoi non seguirlo dove ti conduce, tra diritto e letteratura, a ricordare, a protestare , a gemere e ad esultare”. Paolo Itri attualmente è alla Direzione Antimafia di Napoli, si occupa di Camorra, del famigerato Clan dei Casalesi, quelli del traffico dell’eroina, dei rifiuti speciali tossici, implicati persino nella ricostruzione del World Trade Center di New York. Un Clan che fa paura e, come dice Itri, a proposito di mafiosi e camorristi “si riproducono come formiche trovando sempre il modo di stringere e sciogliere nel sangue vecchie e nuove alleanze”. Ecco il Procuratore alla Voce di New York.

Partiamo dal titolo: perché “Il Monolite?
“Il titolo del romanzo trae spunto dall’enigmatico monolite di “2001 – Odissea nello Spazio” del grande regista americano Stanley Kubrick. Nell’opera cinematografica il misterioso oggetto fa la sua comparsa agli albori dell’umanità, allorquando in un semidesertico territorio lunare gli ominidi di “2001 Odissea nello spazio” si sfidano per il controllo di una fonte d’acqua e l’osso femorale di una delle vittime viene usato come arma d’offesa prima di trasformarsi in astronave spaziale. Nel contesto del romanzo, l’enigmatico monolite rappresenta chiaramente una metafora, la metafora della lotta per il potere, dentro e fuori il palazzo. Una lotta che attraversa quasi quaranta anni della storia del nostro paese, una lotta fatta di strategie criminali, di stragi, di violenza e di morti ammazzati. Ma rappresenta anche un viaggio nel tempo e nello spazio, il viaggio dell’Uomo-Inquirente alla ricerca della verità, con le sue inquietudini interiori e le sue sconfitte, che pesano sempre di più dei successi professionali”.
Leggi e Stato: lei sottolinea in un capitolo, che si aggiungono “leggi” come azzeccagarbugli…
“Un viaggio complicato, reso se possibile ancora più difficile dal fatto che L’Italia ha il record mondiale della produzione legislativa. La bulimia del Parlamento si traduce in migliaia e migliaia di leggi spesso contraddittorie ed astruse, a volte addirittura impossibili da applicare”.
Perché ha scelto di fare il Magistrato?
“Sono entrato in Magistratura agli inizi degli anni 90, poco prima delle stragi di Falcone e Borsellino, che ho avuto perciò modo di conoscere solo attraverso le carte processuali. Ciononostante, Paolo e Giovanni (forse è un segno del destino che sono proprio questi i nomi che mi vennero imposti alla nascita) sono stati per me, come per tanti altri colleghi, un esempio di coraggio ed impegno civile, così forte da spingerci a intraprendere questa professione così affascinante, ma anche dura e difficile”.
Alla Procura di Acciaroli, scrive dodici capitoli, dodici mesi, racconta gran parte della sua vita da Pubblico Ministero. Perché ha sentito la necessità di scrivere queste storie?
“Il libro è ambientato tra il mare e le colline del Parco Nazionale del Cilento, dove ho vissuto per circa quattro anni, in un isolamento quasi assoluto, tra la fine del 2015 e gli inizi di quest’anno. Sono gli anni in cui – dopo una lunga esperienza alla direzione distrettuale antimafia di Napoli prima, e al Ministero poi – ho prestato servizio alla Procura di Vallo della Lucania, un piccolo tribunale in provincia di Salerno che ha costituito lo spunto e l’occasione per fare il punto della situazione, una sorta di bilancio dei miei primi ventotto anni di magistratura. Ventotto anni durante i quali ho avuto modo di occuparmi di tanti processi e di tante vicende, famose e meno famose, di mafia e di camorra ma non solo, comunque sempre coinvolgenti e spesso anche dolorose”.
Quale è la differenza tra Mafia siciliana e Camorra napoletana?
“Per quella che è la mia esperienza, direi che la Camorra napoletana è – prima ancora che un fenomeno di natura criminale o militare – un modo di essere e di pensare, e quindi di natura sub culturale, e pertanto, paradossalmente, forse più difficile da combattere ed estirpare. La Camorra affonda le sue radici nel malessere della società, nella fame e nella disoccupazione, nel degrado dei quartieri dormitorio, e quindi, prima di tutto, nella indifferenza delle istituzioni oltre che nello spirito anarcoide tipicamente napoletano. Si può forse arrivare a dire che in ogni disoccupato dei quartieri a rischio alberga un potenziale camorrista. Il discorso di Cosa nostra è invece del tutto diverso. Non tutti potevano entrare nella sua organizzazione. La struttura fortemente unitaria e verticistica del sodalizio, unitamente ad una connotazione di carattere più strettamente militare ed ai rigidi criteri di selezione degli affiliati, ne facevano e ne fanno una organizzazione sostanzialmente impermeabile e fortemente chiusa all’esterno”.
Ha mai avuto minacce? Lei ha avuto a che fare con il Capo dei Capi…
“Nella mia carriera ci sono stati diversi episodi di minacce, più o meno gravi. Spesso però il pericolo si nasconde non nell’atto intimidatorio in sé, quanto piuttosto nel silenzio e nella indifferenza delle istituzioni. Giovanni Falcone diceva che si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. L’isolamento, la delegittimazione e l’emarginazione del magistrato possono fare più danni delle pallottole”.
La magistratura nonostante le condanne e gli arresti può da sola contrastare i fenomeni criminali?
“Gli arresti e le condanne di mafiosi e camorristi costituiscono, unitamente ai sequestri e alla confisca dei beni, strumenti indispensabili nella lotta alle cosche e alla corruzione. Ma da soli non bastano. Occorre anche una efficace attività di prevenzione dei fenomeni illeciti, soprattutto quelli più diffusi come mafia, ‘ndrangheta e camorra, laddove nel brodo di coltura del disagio sociale, della povertà, della disoccupazione e del degrado dei quartieri dormitorio allignano le cause della devianza e il proliferare dei traffici illeciti”.
Quante volte la verità trionfa, e quante volte nella ricerca della verità ci facciamo condizionare dal ragionevole dubbio?
“Le rispondo con uno dei principali passaggi del libro. Una concezione moderna della giustizia non può prescindere dalla verità, intesa come corrispondenza tra il pensiero e la realtà. Nel Poema sulla natura, la dea Dike mostra a Parmenide la via dell’opinione, che conduce all’apparenza e all’inganno, e la via della verità, che conduce alla sapienza e all’Essere. L’esatto contrario della iconografia classica che rappresenta invece la dea come una donna bendata, armata di spada e bilancia. La benda sugli occhi costituisce un attributo dell’immagine divina estremamente ambiguo, potendo simboleggiare sia l’imparzialità e la incorruttibilità dei giudici che la cecità delle corti e l’arbitrarietà delle sentenze. Cos’è la giustizia senza la verità? Un vuoto simulacro, una complicata macchina burocratica fatta di incomprensibili rituali in cui l’opinione e l’inganno si confondono con il vero e il giusto. È proprio sul terreno della giustizia che si misura il livello di civiltà di un paese. Ne sanno qualcosa le vittime delle stragi e i loro congiunti. La sconfitta dell’Inquirente nella ricerca della verità è la sconfitta dello Stato. Così come, prima ancora, dietro ogni atto di violenza e di sopraffazione, nella stessa violazione delle regole del vivere civile, si consuma la sconfitta dell’Uomo in quanto tale”.
Un libro che vedremo sullo grande schermo?
“Mi auguro che le storie de “Il Monolite” possano essere portate a conoscenza di tutti, anche attraverso la diffusione sugli schermi televisivi, a condizione che una tale diffusione sia quanto più fedele è possibile rispetto al racconto scritto, che è a sua volta un fedele resoconto di fatti e vicende realmente accaduti”.