Perché nelle città meridionali, ma anche in quelle del Nord Italia che ne hanno mutuato il modello, la cattiva amministrazione non riceve le giuste sanzioni? Quale sortilegio utilizza il ceto di governo politico e burocratico per osare tutto e non temere nulla? Come mai il consenso, così sensibile al malgoverno da punirlo e al buon governo da premiarlo, non si trasforma nella cacciata dei responsabili?
I sociologi risponderebbero: la rete avvolgente che allarga a dismisura la platea dei clienti comprime quella del libero convincimento e la ridotta capacità dei cittadini di contrastare la cattiva politica finisce per fare il resto. La pratica e l’osservazione ci dicono che il sistema conquista ai suoi canoni l’occupatore pro tempore del governo di qualunque colore.
Napoli dopo trentacinque anni di amministrazione di centrosinistra non ha sanato le sue ferite secolari e porta i segni profondi di nuove malattie. Anche l’atipica guida del suo sindaco magistrato fatica a spezzare consolidate pratiche.
A Palermo – governata per lunghi decenni dal vecchio e dal nuovo centrodestra e, a distanza di dieci anni, ancora da Leoluca Orlando – poco è cambiato in tema di servizi ai cittadini. La città è sporca, il verde non curato, il trasporto pubblico deficitario, la rete degli asili nido insufficiente, l’assistenza agli anziani al lumicino, gli impianti sportivi a gestione pubblica mal funzionanti e trascurati.
Catania dopo un sussulto e uno scatto d’orgoglio si è affidata al sindaco di venti anni orsono – Enzo Bianco – ma non ci sono notizie di cambi di passo. Le amministrazioni comunali che due anni fa hanno visto irrompere alla loro guida uomini e donne mai legati a passate esperienze si muovono con paludose difficoltà, ostacolate da una burocrazia sempre uguale e resa ancora più forte e distante dai benefici economici senza corrispettivi in risultati che la legge Bassanini ha loro riconosciuto.

Orlando e Bianco
Se scuole, ospedali, asili, parchi, raccolta dei rifiuti, assistenza, erogazione idrica al Sud sono largamente insufficienti, perché l’opinione pubblica di quelle province non si ribella e disarciona i padroni che le guidano? Chi comanda per davvero nelle città? I Consigli comunali ratificano muti e silenziosi decisioni prese altrove. I sindaci eletti con mandato popolare diretto emanano direttive spesso disattese, producono delibere di frequente non attuate. Ma chi sono allora gli uomini che vogliono lo statu quo? Chi ostacola ogni buona pratica amministrativa che attiva i fari del controllo sociale sul comportamento delle maestranze pubbliche? Chi percepisce indennità che oramai superano di una buona spanna quelle dei vertici politici? Chi è quasi inamovibile dai posti di responsabilità, nonostante le guide politiche si succedano ai ritmi delle scadenze elettorali? Chi è quasi del tutto sconosciuto all’opinione pubblica che lancia i suoi strali nei confronti degli amministratori delle città, poco e nulla conoscendo dei meccanismi di trasmissione del comando e della loro traduzione in risultati?
Questi uomini e queste donne hanno un nome antico su cui tanti sociologi hanno sviluppato dotte analisi: le burocrazie.
Nelle amministrazioni meridionali, sature fino a scoppiare di maestranze disabituate ai controlli di produttività, percorse spesso da manifestazioni di arroganza e mafiosità, gli alti burocrati galleggiano senza decidere, chinano il capo nell’assenso formale e nel sabotaggio sostanziale rendendo ogni nuova idea vuota e vana.
I sindaci, pur investiti sulla carta di un grande potere, poco possono contro il sabotaggio bianco. I burocrati contano il tempo che separa l’arrivo del nuovo amministratore dalla sua caduta. Spesso prestano la loro opera agli avversari politici, invocano leggi e regolamenti in chiave immobilista invece che dinamica e godono della quasi inamovibilità
Difficile sostituirli, farraginoso farsi ubbidire. I sindaci non controllano neanche quella che potrebbe essere una potente leva dell’efficienza: il salario differito. Pochissimi alti dirigenti non raccolgono il top della valutazione, tutti percepiscono il massimo delle indennità di risultato anche di fronte a evidenti esempi di fallimento. Solo fatti eccezionali spezzano la rete del ricatto.
Che cosa resta ai cittadini che non si rassegnano, all’associazionismo che non alza bandiera bianca, alle forze politiche che non si adeguano? Forse dovrebbero affiancare ai mezzi tradizionali: denuncia, attivazione dell’intervento dei media, risposta dell’amministrazione, altre metodologie. E se chi governa gli apparati amministrativi nulla teme, forse può imparare a preoccuparsi delle sanzioni patrimoniali che la sua cattiva amministrazione della cosa pubblica potrebbe causargli. Un politico che utilizza l’auto di servizio per fini privati compie peculato. Il burocrate che con la sua inerzia, i suoi conflitti di attribuzione, il rifiuto di assunzione di responsabilità, consente che opere pubbliche costate alla collettività milioni di euro si degradino e non siano mai utilizzate non paga mai. L’azione di responsabilità, l’intervento della magistratura contabile potrebbero arrivare in soccorso del cittadino che non rinuncia. La class action pubblica e privata e le buone pratiche di cittadinanza attiva, sono strumenti da utilizzare massicciamente al Sud se si vuole invertire una pluridecennale tendenza che privatizza i privilegi e provoca gravi disagi pubblici.