In un’intervista di un paio di mesi fa l’allora allenatore della Juventus, Antonio Conte, disse, in riferimento alla Champions League: “Quando ti siedi in un ristorante dove si pagano 100 euro non puoi pensare di mangiare con 10 euro”. Battuta subito divulgata da quotidiani e televisioni e ripresa ieri da La Repubblica nei due paginoni dedicati alla notizia del giorno, ossia le dimissioni di Conte.
Significativo il modo in cui il giornale ha distorto la frase, pur mettendola fra virgolette a garantirne implicitamente l’autenticità (una procedura di falsificazione ormai praticata in modo sistematico e senza alcuna contestazione): “Non ti siedi al ristorante da 100 euro con 10 euro in tasca”. Il messaggio trasmesso dalla nuova versione è ancor più superficiale e arrogante dell’originale: perché in un ristorante da 100 euro non ci va neppure chi abbia 100 euro in tasca. Ci va solo chi ne ha molti di più e sia sicuro di guadagnarne parecchie migliaia ogni mese. Come, appunto, Conte (vari milioni all’anno) e come i giornalisti dei network a diffusione nazionale.
In sostanza quello che il sistema liberista vuole farci credere attraverso le sue celebrity e i suoi media è che il successo si ottenga solo con il denaro, molto denaro, e che, cosa ancora più importante, il successo ottenuto in tale modo sia, ugualmente, un indice di merito.
Com’è possibile che la gente normale, quella che, come me, in un ristorante da 100 euro non ci va mai e magari neppure desidera andarci, accetti quella similitudine e, soprattutto, la morale che promuove? Se davvero la Champions la può vincere solo chi ha più soldi, perché continuiamo a seguirla e a far finta che sia una competizione e non semplicemente uno show, una manipolazione? Se per vincere o credere di poter vincere (che per i media è la stessa cosa) basta comprarsi i giocatori a più alta visibilità (spesso nemmeno quelli più bravi), senza bisogno di creare scuole o vivai e neppure di andare in cerca di giovani promesse e di prendersi qualche rischio scommettendo su talenti non ancora consacrati, dove sarebbe la virtù che giustificherebbe i privilegi di un manager, di un leader?
Oscene diseguaglianze e ingiustizie ci sono sempre state e temo ci saranno sempre: ma non è affatto necessario o inevitabile che oltre all’egemonia economica i ricchi abbiano anche quella etica e culturale, e per di più senza le limitazioni di un codice simile a quello che, per secoli, condizionò il comportamento dell’aristocrazia. Ma aristocrazia significava “predominio dei migliori” e anche se non era vero che fossero i migliori, rappresentava un’aspirazione e un vincolo. Liberismo invece, significa attribuire, programmaticamente, la qualifica di migliore a chi già predomina: la deregulation ha cioè trasformato il processo di selezione e formazione di un’élite responsabile in una lotteria in cui chi vince, con qualsiasi mezzo e a prescindere dalle circostanze, meritava di vincere, e di vincere tutto – e gli altri, i perdenti, non meritano e non meritavano nulla.
Se la squadra di Conte, malgrado i notevoli mezzi che gli ha garantito la Juventus, non è competitiva in Europa, è perché lui è un allenatore mediocre. Non un incapace e neppure un dilettante ma un allenatore come tanti, dal quale non ci si possono aspettare, non dico miracoli, ma neppure innovazioni, soluzioni creative. Altrimenti nel 2010 invece di Vucinic avrebbe cercato di ingaggiare, mettiamo, James Rodríguez, più giovane di otto anni e, allora, molto meno costoso.
Il problema dell’Italia (e non solo dell’Italia) non è la mancanza di denaro. È la mancanza di una classe dirigente degna di questo nome. Al suo posto ci sono troppi uomini (e qualche donna) senza qualità, che fanno legittimare i loro privilegi e i loro assurdi profitti da media a loro asserviti e gestiti da personaggi ancora più squallidi di loro. Il libero mercato è come il vestito nuovo dell’imperatore nella favola di Andersen: una truffa, a cui la gente crede perché ingenua, debole o in malafede. Finché finalmente qualcuno non si renda conto che il re è nudo, e lo gridi.