Spinto dalle numerosissime recensioni americane a dir poco entusiastiche e dal vuoto che la fine di Breaking Bad – a mio parere e senza esitazioni la serie più bella di sempre – mi ha lasciato nel cuore e nello sguardo, ho deciso di godermi il primo episodio di True Detective, la nuova serie marchiata HBO.
Gli elementi di curiosità erano per me essenzialmente due. Da una parte, il cast: Matthew McConaughey, nel pieno della sua splendida “seconda carriera” (quella post-Friedkin, per intenderci) e Woody Harrelson, in coppia in una serie, mi sembravano e mi sembrano un lusso straordinario che vale da solo uno sguardo attento a True Detective.
Dall’altra, mi chiedevo: dove potranno celarsi gli elementi di originalità che fanno esultare letteralmente i colleghi d’oltreoceano, in una struttura narrativa che parla, a conti fatti, semplicemente di una coppia di detective che dà la caccia ad un omicida seriale, e cioè di una delle vicende più lise e più percorse e ripercorse da cinema e televisione?
Devo dire che dopo la folgorante visione del pilot della serie, trovo ancora più vera un’affermazione che da un po’ di tempo viene accostata alla produzione seriale americana, e cioè che sempre più spesso le cose migliori che lo show business made in USA riesce a produrre si trovano più in ambito televisivo che cinematografico. True Detective, ad esempio, stacca ampiamente e nettamente, per qualità, profondità e spessore, almeno tre quarti dei film che l’Academy ha candidato agli Oscar nell’annuale autocelebrazione della macchina hollywoodiana. Questo prodotto televisivo unico e straordinario, visto dall’Italia, non può non suscitare, per prima cosa, una punta di invidia nei confronti degli spettatori americani. Osservata da qui, la serialità USA e in particolare gioielli come questo, fanno capire: come la società americana continui felicemente a concepire i media come “antidoti” al potere e non come strumenti ad esso asserviti e squallidamente appiattiti su una sterile mediocrità; come la narrativa americana, passi essa attraverso le immagini di una serie o per le pagine di un romanzo, sia capace di costruire poderose metafore che vanno a fondo nel raccontare la crisi dei tempi tragici che stiamo vivendo.
In Italia le direttrici fondamentali continuano ad essere due: o si pensa che i panni sporchi sia meglio lavarseli in casa e in nome di ciò si procede sistematicamente all’edulcorazione di ogni forma di autorappresentazione scomoda o anche solo vagamente critica (con le eccezioni “alte” dei pochi nomi noti, guidati da Sorrentino e Garrone), oppure, si risolve tutto con una bella risata, che si tratti di giovani ricercatori disoccupati che imitano l’inimitabile Walter White o di sterili commedie “made in Puglia” o importate – male – dalla Francia, alle quali viene accostato la raccapricciante etichetta di “nuova commedia all’italiana”.
Detto questo, True Detective, a giudicare dal pilot, è un capolavoro. Innanzitutto perché prende gli stereotipi del buddy movie, li travolge e li scardina in modo impressionante. I due detective protagonisti, Rust Cohle detto “l’esattore” (McConaughey) e Marty Hart (Harrelson), sono personaggi di una complessità psicologica sorprendente, cui giova senza dubbio la recitazione dolente e straordinaria dei due protagonisti, che riescono – lavorando magnificamente per sottrazione e su toni spenti – a restituire il mistero angosciante delle vite private dei loro caratteri e a renderli figure interessanti e seducenti.
Altro dettaglio straordinario è l’architettura, a dir poco ambiziosa, della struttura temporale: la serie copre con una fluidità sbalorditiva un arco di diciassette anni – dal 1995, anno dell’inizio delle prime indagini della coppia, al 2012, l’anno in cui i due, ormai fuori servizio vengono richiamati come consulenti per un caso simile a quello da loro risolto tempo addietro – permettendosi continui salti in avanti e indietro che mai risultano stucchevoli, incomprensibili o artificiosi, ma sempre e soltanto coinvolgenti e stimolanti.
Infine, l’ambientazione. La Lousiana, il Sud degli States, New Orleans, tutto ritratto come una landa desolata, piatta, che già nel 1995 sembra uno scenario apocalittico, un non-luogo ideale per ospitare il male assoluto portato in grembo da un satanico serial killer, una terra su cui si apre lo squarcio della devastante ferita, quasi punitiva, dell’uragano Kathrina, che fa da spartiacque tra le due dimensioni temporali.
La serie è magnificamente scritta da Nic Pizzolatto, che fino ad ora aveva nel suo palmares solo due ottimi episodi di The Killing, che dimostra una straordinaria abilità soprattutto nella costruzione dei dialoghi, spesso lunghi e lenti, ma sempre tremendamente interessanti.
Tutta la serie è diretta da Cary Joji Fukunaga, che ha concepito il progetto come un unico grande film di otto ore. Il risultato è un prodotto compatto e personale, che si permette tempi anche molto statici ma appropriati alla drammaticità della vicenda, grazie anche alla fotografia sulfurea e disturbante di Adam Arkapaw.
Il risultato della somma di questi ingredienti è una serie tra le più cupe che si siano viste negli ultimi anni, a tratti disperata, senza luce, che si fa carico in modo metaforicamente sublime delle scariche di inquietudine che attraversano la società americana.
https://youtube.com/watch?v=mXG1netn9_g