Come molti altri miei connazionali immigrati e aspiranti tali negli States, sono rimasta attonita leggendo l’articolo pubblicato qualche giorno fa su Il Resto del Carlino, dove si racconta la disavventura di alcuni ragazzi maceratesi recentemente bloccati al JFK.
Preciso che a destare il mio stupore non è stato il fatto che i soggetti siano stati fermati e rispediti al mittente senza troppi complimenti, bensì la disinformazione e la pirlaggine totale che questi hanno dimostrato arrivando negli States con visto turistico e dichiarando placidamente all’immigration l’intenzione di lavorare in nero, senza tra l’altro parlare neanche un minimo di inglese. Ragazzi mi spiace, ma per sopravvivere qui bisogna essere alquanto svegli, decisamente New York non fa per voi.
Non mi esprimo poi sulla totale superficialità della giornalista che ha scritto l’articolo, che ha dimostrato di non essersi disturbata a fare la minima ricerca riguardo alle regole sull’immigrazione negli States. Sarebbero infatti bastati pochi click per scoprire che il negato accesso agli aspiranti lavoratori era tutt’altro che ingiustificato.
Credevo che ormai anche i neonati sapessero che non è per nulla semplice e tantomeno immediato procurarsi un permesso per lavorare negli Stati Uniti, dove è complicato anche solo ottenere un visto che consenta una lunga permanenza. È indispensabile dimostrare di essere in possesso di determinati requisiti, presentare una specifica documentazione e superare dei processi selettivi che variano a seconda della tipologia di visto richiesta (potete trovare tutte le informazioni online, sul sito dell’US Citizenship and Immigration Services).
Detto questo, l’atteggiamento dei poliziotti americani a volte può essere alquanto rude. Negli innumerevoli ingressi che ho fatto negli States, quasi tutti sbarcando al JFK, dopo i controlli e le domande di rito, sono sempre stata accolta più o meno cortesemente, con un welcome o un welcome back, che mi scaldano sempre un po’ il cuore. Solamente una volta ho trovato dietro allo sportello dell’immigration un personaggio che mi ha regalato una delle più memorabili esperienze dei miei diari di viaggio.
C’è da dire che quel particolare viaggio si rivelò allucinante fin dalla partenza, con interrogatori già dall’Europa e parecchie ore di ritardo, probabilmente a causa di un allarme terroristico lanciato proprio sulla tratta del mio volo (quando si dice la fortuna…). Una volta atterrata al JFK, e arrivata in fondo a una coda chilometrica, mi ritrovo all’immigration difronte a questo individuo, che inizia molto seriosamente a sottopormi ai soliti controlli e domande di rito. C’è da dire che il soggetto era piuttosto giovane, e sicuramente ansioso di fare colpo sul suo capo. L’interrogatorio inizia a protrarsi più del solito, e lo sguardo del tizio continua a muoversi tra la mia faccia e il mio passaporto, finché non si ferma stabilmente su quest’ultimo, decretando “questo documento potrebbe essere falso”.
Al che io, senza sapere se ridere o piangere e già stremata da un viaggio infinito, inizio a guardarmi intorno cercando la candid camera, ma dalla faccia di pietra del poliziotto, capisco in fretta che non si tratta di uno scherzo.
Senza passaporto, spiegazioni e bagagli, vengo scortata in uno stanzino affollato di altri sospetti in attesa, dove mi viene confiscato anche il telefono.
A quel punto provo a chiedere informazioni a qualche altro poliziotto, ma ne ottengo solo alcuni calorosi inviti, per nulla cordiali, ad andarmi a sedere e attendere in silenzio, che “se mi trovavo lì un motivo c’era sicuramente”.
Se il motivo c’era, io non l’ho mai scoperto. Con quello stesso passaporto ero già entrata negli Stati Uniti molte altre volte, senza che nessuno avanzasse mai dubbio alcuno sulla sua validità. Era sicuramente un documento molto usato, pieno di timbri di paesi delle più varie zone del mondo, ma era comunque integro e ben leggibile. La fotografia non era recentissima, ma mi si riconosceva bene.
Per tutta quell’interminabile attesa mi sono arrovellata le meningi pensando alle più varie e assurde ipotesi, prendendo anche in considerazione il mio aspetto fisico, per nulla conforme con lo stereotipo di italiano che solitamente hanno all’estero. Forse che l’integerrimo agente non credeva possibile che una tizia bianca come un cencio fosse italiana? Mah… Tutt’ora mi capita fin troppo frequentemente di dover spiegare agli americani che dall’Italia ci sono passati tutti, dai turchi ai normanni, quindi non siamo tutti scuri e mori.
Ho rasentato anche la disperazione paranoica, ricordandomi di The Terminal, il film liberamente tratto da una storia vera, dove Tom Hanks vive per mesi bloccato dentro al JFK.
Alla fine, dopo oltre un’ora, un altro poliziotto mi chiama e mi riconsegna il passaporto, dicendomi “tutto ok”. Senza una spiegazione, una scusa, niente.
Tutto è bene quel che finisce bene, ma dopo quell’esperienza non posso negare di provare una certa emozione ogni volta che mi accingo ad attraversare l’immigration del JFK, principale porta di ingresso a New York e negli Stati Uniti. Sensazione che non mi abbandona neanche oggi che il passaporto è cambiato, e che sono qui a scrivere di questa città.