Settembre. Le piogge torrenziali di fine estate non si sono fatte aspettare più di tanto. Ho qualche dubbio sul tornare nell’Oreto per il pericolo di una piena o di trovare magari corrente più forte.
Perciò, per avere qualche chance in più, compro un bel canottino da snorkeling, robusto, con fondo trasparente per guardare sott’acqua. Non è ovviamente un oggetto di tecnologia sopraffina, ma mi permetterà di far galleggiare l’attrezzatura e trascinarmela dietro comodamente, se dovessi essere costretto a nuotare.
Scopo della tappa è arrivare ad Altofonte, località spesso indicata come principale zona sorgiva del fiume. Avrò presto delle sorprese, che mi convinceranno a proseguire molto oltre.
Rientro dal Ponte Parco, Aquino, dalla stessa scaletta dalla quale ero uscito la volta scorsa. C’è visibilmente molta più acqua, ed è anche più fredda. Lego il canottino a una cima e lo attacco a uno spallaccio dello zaino con un moschettone.
La marcia è inizialmente abbastanza semplice e a tratti spettacolare. La luce del mattino filtra tra l’umidità creando dei bellissimi giochi di riflessi. Sono in un luogo che sembra un mondo incantato. Scatto una foto che ritrae un fiume, non un canale di scolo o un torrentello. La vegetazione intorno è un insieme di alberi decennali e cespugli. Persino i rovi con questa luce sembrano ricami della natura. L’odore tipico dell’Oreto, quel puzzo sulfureo di fogna, ha lasciato il posto a un fresco profumo di terra bagnata e di muschio. Vedo in lontananza una sagoma colorata che dondola tra i modesti flutti. È un’anatra. Probabilmente si sta riposando prima di ripartire per la migrazione.
Proseguo verso monte e l’anatra, per non incrociarmi, va nella mia stessa direzione. È molto più veloce di me e quando la raggiungo la trovo ferma ad annusare l’aria, poi infastidita si rimette a camminare. Improvvisamente sparisce, ci rimango quasi male, il giro di danza con il volatile mi aveva fatto trascorrere un bel momento. Rieccomi ora fiondato nella grigia realtà. Un ammasso di bidoni azzurri di origine sospetta giacciono su una delle rive. Mi limito a scattare delle foto senza avvicinarmi più di tanto.
La pendenza intanto aumenta progressivamente. Ad un tratto vedo, alla mia sinistra, una cavità che rientra nella roccia per qualche metro. Ci sono diverse concrezioni calcaree spesse come le radici di un ficus. Qui, dal fondale, si sprigionano delle bolle d’aria, è possibile che vi sgorghi dell’acqua. Attorno a me vedo due colline, ripide e coperte di arbusti. Alcuni metri dopo c’è un laghetto e una conca di roccia strapiombante grigia. Pare che sia il punto d’arrivo.
Ma sono davvero già alla sorgente? L’unico modo per capirlo è nuotare controcorrente nella strettoia in fondo alla conca e vedere cosa c’è dall’altro lato. In acqua c’è una sorta di schiuma giallastra che galleggia e si va ad ammucchiare sulle sponde. Metto lo zaino sul canottino e mi sdraio prono su di esso fino alla cintola, pinneggiando con le gambe. Più mi addentro nella gola, larga pochi metri, più è difficile nuotare a causa della corrente. Per fortuna arrivo presto a una cascatella e riesco a uscire, arrampicandomi su una roccia. Mi preoccupa la forza delle acque in questo punto.
Ecco ora l’ennesima gola, ma questa è molto più ampia, le insenature sono piene di rifiuti e un salto d’acqua dall’aspetto impegnativo. Per risalirlo perderò quasi due ore, terrorizzato dalla possibilità di scivolare sulle rocce bagnate e di essere trascinato tra i rifiuti con le ossa rotte. Ragiono sul da farsi. Prima di tutto, lascio l’ attrezzatura sulla riva del lago e vado ad aprirmi un varco con il machete sulla sponda sinistra, l’unica arrampicabile, ma coperta di rovi, che mi permetterebbe di scavalcare la cascata senza dover nuotare. Da lontano non sembra chissà quale passaggio, ma la roccia è coperta di spine e piante, c’è fango ovunque e le insenature da scavalcare hanno pareti viscide. I rovi sono una noia da sfoltire, sono elastici, e spesso il fendente fa tornare indietro i rami spinosi verso gli occhi. Devo quindi mozzarli con cautela, uno per uno. Poi, pulita la prima insenatura dalla vegetazione, avvicino e assicuro l’attrezzatura a un ramo, per evitare che galleggi via. Il canotto galleggia qualche metro sotto di me, come un biscotto nel cappuccino. Ora devo capire come passare l’ostacolo e recuperare la roba. Faccio un paio di tentativi maldestri arrampicandomi, ma il rischio di scivolare e cadere mi fa desistere. Se cadessi malamente, rimarrei incastrato tra le pareti a imbuto della roccia e finirei anche parzialmente sommerso dalla schiuma. Vorrei evitare di buttarmi in acqua, ma la mia posizione è ormai pessima e devo rinunciare a ogni tentativo via terra.
Ecco allora l’idea: recupero la cima del canottino, lego un moschettone all’altra estremità in modo che faccia da peso, la lancio dall’atro lato della pancia di pietra accanto alla cascata, quando sono sicuro che sia ben bloccata salto in acqua, nuoto, esco, torno indietro via terra e recupero la roba dall’alto. Più facile a dirsi che a farsi. Mi spingo quindi fino a dove posso sulla “pancia” e tento i lanci. Dopo un pò aggancio un grosso ramo che tiene bene la corda e torno alla mia insenatura. Mi preparo psicologicamente per arrivare con un solo balzo al di là della schiuma sotto di me. Mi viene un dubbio: e se l’acqua non fosse abbastanza profonda? Cosa ci sarà sul fondo? Se ci fossero altri pezzi di metallo e mi ferissi? Non potrei comunicare con nessuno perché qua non c’è campo e sono dentro una gola. Pazienza, bisogna saltare. Chiudo gli occhi, serro bocca e naso per non bere neanche una goccia di quello schifo e vado. Con mia sorpresa scendo almeno due metri e mezzo sott’acqua senza toccare il fondo. Il primo tuffo nell’Oreto dopo chissà quanti anni! Ora bisogna nuotare, non posso stare troppo a bagno in quei liquami. Nuoto allora verso la cascata e risalgo proprio sotto il getto d’acqua. Io di canyoning e robe simili non so nulla, ma so bene quanta forza abbia un torrente, anche se modesto come questo. Devo riuscire a scavalcare senza scivolare sulle rocce perchè non ho corde o altri sistemi per garantirmi una certa sicurezza. Che ne sapevo che c’è un canyon nell’Oreto! Impiego una buona mezz’ora solo per capire come uscirne, ma alla fine, con estrema prudenza, sono fuori. Recupero rapidamente l’attrezzatura e proseguo. Altre cascatelle in roccia bianca, di difficoltà facile rendono gradevole gli ultimi chilometri prima del ponte di via Filicino, in aperta campagna. Mi attendono gli amici del CNSAS che mi vengono a “recuperare” simbolicamente per concludere il nostro percorso “insieme” ( ho sempre mandato la tracciabilità del mio cammino via sms al presidente Giorgio Bisagna). In questa tappa esco quindi dopo Altofonte, che avevo prefigurato come meta giornaliera. Non so come sia potuto succedere, ma non mi sono accorto dell’affluente che scende dal paese. Poco male, perché sono rimasto nel fiume, che è quello che mi interessa, ma devo stare più attento a certe cose! La prossima tappa sarà risolutiva e mi condurrà dove l’Oreto effettivamente nasce, ovvero dalla confluenza di due torrenti minori e puzzolenti. In mezzo ci sarà una pausa forzata di ben 5 mesi, perché sarò costretto a letto con una gamba rotta in seguito a un banale infortunio.
Qui le precedenti puntate della risalita dell’Oreto:
Prima puntata – Oreto: dove c’erano le ninfe, oggi solo discariche
Seconda puntata – Ascoltando il richiamo di una selva oscura