Era nell’aria l’assoluzione del generale dei carabinieri Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu. I giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo si erano appena chiusi in camera di consiglio, che il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, accorso per non lasciare solo il Pubblico Ministero Nino De Matteo (l’altro PM, Antonio Ingroia ha ormai definitivamente abbandonato la magistratura), metteva le mani avanti: “La sentenza del processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu potrà avere una refluenza sul processo per la trattativa tra Stato e mafia, ma non di grandissima importanza”. Affermazione che è un’ammissione: una conseguenza, pardon, una refluenza, ci sarà; pur se di non grandissima importanza. E sempre Teresi poi a proposito del processo che verrà, quello sulla “trattativa”: “…processo molto importante, una tappa per cercare di ricostruire una stagione misteriosa”. Appunto. E allora, piaccia o no, la “refluenza” ci sarà, già c’è; e si ha un bel dire che “è chiaro che questo processo avrà un impatto mediatico molto forte, ma sarà un impatto più di immagine che di sostanze. A guardarlo con la freddezza del pubblico ministero che ha una visione complessiva delle vicende, quello di Mezzojuso è un segmento abbastanza ristretto e limitato. Ecco perché potrà avere una refluenza ma non di grande importanza”.
E sarà anche un segmento “abbastanza ristretto e limitato”, ma stride e cozza, questa valutazione, con la successiva: “Il processo al generale Mori "è un processo importante, che da un punto di vista dibattimentale ha dei riferimenti importanti con il processo per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina ma anche quello aveva delle difficoltà intrinseche”.
Insomma: s’indovina la difficoltà del cercare di salvare capra e cavoli e guadare contemporaneamente il fiume con il lupo in agguato. “Refluenza” a parte, vediamo di ricomporre il mosaico, che la vicenda è complicata quanto basta. Per la pubblica accusa Mori ha favorito la latitanza di Bernardo Provenzano impedendo, nell’ottobre del 1995, un blitz nelle campagne di Mezzojuso, vicino Palermo, che avrebbe consentito l’arresto del boss. E’ lo stesso Mori che nella sua veste di responsabile del Reparto operativo speciale dei carabinieri, nel 1993 ha arrestato Riina; lo stesso Mori che viene imputato dalla procura di Palermo di favoreggiamento, per non aver perquisito il covo di Totò Riina al momento del suo arresto, e successivamente assolto dall’accusa; e ora è assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia. Per quel che riguarda quest’ultima vicenda, secondo la pubblica accusa Mori e il colonnello Obinu sono scesi a patti con i mafiosi, anche attraverso i contatti con Vito Ciancimino (il sindaco di Palermo che Giovanni Falcone definiva "il più mafioso dei politici, il più politico dei mafiosi"). In seguito a tali accordi (da qui il processo in corso sulla "trattativa") avrebbero deliberatamente evitato di catturare Provenzano. Per la procura una "sciagurata politica criminale". Per dirla con il PM Di Matteo le accuse a Mori e Ubinu "incrociano la più complessa storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia negli anni ‘80 e ‘90, la storia di una politica vergognosamente insensibile, di una parte delle istituzioni che ha cercato e ottenuto il dialogo con l'organizzazione mafiosa, convincendosi che fosse utile ad arginare le azioni più violente e destabilizzanti della mafia". La latitanza di Provenzano, sarebbe stata garantita, "anche in ossequio a parallele trattative, per ottenere l'abbandono dello scontro violento con le istituzioni e l'adozione di quella apparente normalizzazione che ha effettivamente caratterizzato quel periodo fino alla cattura di Provenzano nell'aprile del 2006". Processo definito "drammatico", perché "lo Stato sta processando se stesso, con dolore, ma con la consapevolezza che altrimenti avrebbe perso la sua credibilità e consegnato alla mafia l'arma del ricatto, il solito ricatto che ha permesso di insabbiare, di difendere i suoi uomini anche di fronte a tradimenti".
Il 27 ottobre 2010 Mori viene iscritto nel registro degli indagati della Procura di Palermo per l'ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito del fascicolo sulla presunta trattativa. Insieme a lui, Massimo Ciancimino. Per il reato di "attentato a un corpo politico o istituzionale, tra gli altri, i boss corleonesi Bernardo Provenzano e Totò Riina, l'ex ministro Calogero Mannino. Per falsa testimonianza Nicola Mancino.
Ciancimino: è lui il grande accusatore. Il 1 febbraio 2010 fa mettere a verbale: "Provenzano era garantito da un accordo stabilito anche grazie a mio padre tra il maggio e il dicembre del 1992. Provenzano godeva di immunità territoriale in Italia grazie a questo accordo". L'ex sindaco mafioso aveva una 'linea rossa', un numero di telefono "sempre a disposizione per i boss ma anche i politici". E ancora: "Virginio Rognoni e Nicola Mancino", entrambi esponenti della Dc e ministri rispettivamente della Difesa e dell'Interno nei primi anni '90, sarebbero stati i "garanti della trattativa". Sempre secondo Massimo, fu il padre a dare "indicazioni per la cattura di Riina e convinse Provenzano…chiese l'autorizzazione a Mori e De Donno a trattare e la ottenne". Ma non finisce qui: "…fu Marcello Dell'Utri a sostituire mio padre dopo che i carabinieri avevano dettato le condizioni per arrestarlo…"; e Silvio Berlusconi "come entità politica era il frutto di questa trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra nel 1992". Per i PM fondamentale il ruolo di Ciancimino jr: "E' lui che lega i contatti tra carabinieri e don Vito al tentativo di fermare le stragi e di trovare una intesa inconfessabile". Fantasie, per Mori, che sostiene: "I rapporti tra me, De Donno e Vito Ciancimino rientrano nelle relazioni confidenziali che non hanno nulla a che vedere con una trattativa Vito Ciancimino non contribuì in alcun modo alla cattura di Totò Riina".
E poi le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia: Stefano Lo Verso riferisce confidenze che avrebbe avuto da Provenzano: "Stai tranquillo io sono protetto dai politici e dalle autorità; in passato sono stato protetto da un potente dell'Arma. Non ti preoccupare, a me non mi cerca nessuno". Gaspare Spatuzza,racconta che Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, gli avrebbe detto di essere in contatto con "persone serie" e tra queste anche Berlusconi: "Disse di sì, e che c'era un nostro paesano, Dell'Utri. Ci avevamo messo, disse, il Paese nelle mani". Giovanni Brusca poi dice che le trattative tra mafia e Stato sono state parecchie: una risale al periodo successivo all'omicidio di Salvo Lima, l'altra al 1993, dopo l'arresto di Totò Riina. Indica in Mancino il "garante e il terminale" delle presunte intese tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni. Secondo la ricostruzione di Brusca, dopo l'omicidio di Salvo Lima "si sarebbero fatti sotto" Vito Ciancimino e Dell'Utri: "Il primo portò la Lega (non specifica quale, ndr), l'altro un nuovo soggetto politico che si doveva costituire, o che già era costituito. Entrambi si proposero come alternative a Lima e al sistema politico di cui era stato il garante". Brusca fa poi riferimento a un altro “pezzo” della trattativa, che risale al periodo successivo alla strage di Capaci. Riina avrebbe riferito a Brusca che nei confronti di questi soggetti si sarebbe presentato "con un papello tanto così" con una serie di richieste. "Successivamente appresi che il soggetto interessato a fare cessare le stragi era Mancino. Da lui arrivò la richiesta: 'Cosa volete per finirla con le stragi?'". L'altra fase della trattativa riguarda invece il periodo successivo all'arresto di Riina: "In quel momento a me, a Leoluca Bagarella e a Provenzano stava a cuore attenuare i maltrattamenti inflitti nelle carceri speciali di Pianosa e dell'Asinara. Poi non volevamo revocare il 41 bis, cosa controproducente, ma svuotarne il contenuto".
Naturalmente i chiamati in causa smentiscono ogni cosa. Mancino, per esempio dice che "nessuno mi ha mai parlato di trattative, non ne ho mai avuto conoscenza. Se qualcuno me ne avesse parlato avrei portato la questione al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e chiesto un dibattito nel Consiglio dei ministri. Sono stato molto fermo come ministro". E la storia del 41 bis, svuotato o attenuato che sia, regge poco: dopo tanto parlarne, finalmente è venuta fuori la lista dei mafiosi che all’epoca erano sottoposti a quel regime speciale; e a parte l’eccezione di un paio di boss di secondo piano, effettivamente malati e ultra-settantenni, nessuno di loro ha ottenuto benefici o vantaggi. Per loro, la trattativa è stata un vero buco nell’acqua!
Questo il “contesto”. E ora torniamo al “testo” del processo Mori-Obinu. I due ufficiali dei carabinieri come si è detto dovevano rispondere dell’accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano. Per i giudici un teorema senza prove.
Già, le prove. Perché in un aula di tribunale, quelle, e quelle sole dovrebbero contare e pesare. Prove che, per i giudici, non ci sono. Una sentenza che vibra un colpo mortale all’altro processo, quello sulla cosiddetta “trattativa”, perché fa venir meno quello che è l’architrave di tutto il teorema. Può piacere o dispiacere, ma così è.
Ora se infatti si vuole sostenere che lo Stato, o pezzi delle istituzioni, di volta in volta sono scesi a patti con la mafia, si scopre l’acqua calda. Lo sbarco degli Alleati in Sicilia, la cattura e l’uccisione del bandito Giuliano, probabilmente l’uccisione da parte dei carabinieri di Antonio Canepa, se si vuole risalire alla notte dei tempi il delitto Notarbartolo-Palizzolo, gli esempi non mancano certo. Ma in questa vicenda si sono chiamati in causa ex ministri del Senato, della Giustizia, si è voluto lambire il presidente della Repubblica, favoleggiando di favori, complicità e omertà di ogni tipo…in omaggio a un teorema che non solo non poggia su prove provate (e in tribunale è questo che si deve o dovrebbe fare), ma anche alla semplice logica. Da ieri, tutto questo, è carta straccia. Altro che “defluenza” di non grandissima importanza!