A Palermo, terra di mafia eccetera eccetera, due giorni fa è stata uccisa a coltellate Rosy Bonanno, giovane madre di 26 anni, sembra, davanti al figlio di due. La donna aveva denunciato sei volte l’ex convivente omicida per aggressioni e minacce di varia entità, frequenza, gravità. La famiglia della vittima consegna alle cronache, che presto dimenticheranno, una domanda disperata, impotente, ingenua, pura: “Dov’era la Legge?”. La Legge, la legalità, l’obbligatorietà dell’azione penale, la rapidità dei processi, il disinteresse, l’equidistanza, la nobiltà martire di Falcone e Borsellino acquisita per concorso. “La Legge”, ha risposto con lo stile e i contenuti che gli sono troppo frequentemente propri: arroganza appena mascherata da algido distacco burocratico, accidia da consorteria immune e protetta.
Cominciano i servizi sociali: “Conti (l’omicida) e la donna hanno rifiutato l’assistenza offerta, che prevedeva il ricovero protetto per la madre e il figlio e, in una struttura separata, per il compagno”. Carte a posto. Si segnala la parola “rifiuto”, che magari è stata una dolorosa rassegnazione di fronte alla goffa e irridente inadeguatezza della proposta. Ma scrivere rifiuto assicura, allude ad una colpevole rigidità che, mentre giustifica chi l’avrebbe subito, quasi quasi sembra voglia dire: “ben ti sta”, così impari.
E la Procura che, per la bisogna, si è scomodata col suo capo, il Dott. Messineo? Eccola: “Da controlli nel registro generale delle notizie di reato abbiamo accertato che la signora Rosy Bonanno aveva denunciato due volte, una nel 2010, l’altra nel 2011 Benedetto Conti. Le accuse erano di maltrattamenti in famiglia e non di stalking. Entrambe le denunce furono archiviate dal gip su richiesta della Procura perché la signora, risentita dagli inquirenti, minimizzò i fatti e in un caso ritirò la querela sostenendo che i dissidi erano cessati e che si era riconciliata con Conti”.
Intanto le denuncie sono “solo” due e non sei, pare si voglia precisare. In realtà, il maggior numero urlato dalla famiglia si può spiegare considerando che le denunce, giustamente, sono intese come ogni richiesta d’aiuto comunque giunta alle orecchie di un ufficio pubblico, compresa Polizia di Stato e Servizi Sociali; il riferimento roboante e ampolloso al “registro generale delle notizie di reato”, semmai riconferma l’incuria e l’ottusità impiegatizia di cui è intriso. E poi, ancora una volta, il succo è: noi che c’entriamo? E' lei che ha “minimizzato”; inoltre aveva denunciato Conti per “maltrattamenti in famiglia” e non per “Stalking”. Perché, dovete sapere che, se un cittadino con la sua manina non scrive il nome di un certo reato nella denuncia, noi, Ufficio del Pubblico Ministero, non possiamo mica stabilire se il fatto che ci viene esposto abbia o non abbia una certa qualificazione giuridica?! Nooo, manco per sogno! Noi dobbiamo attenerci scrupolosamente all’estro giuridico del denunciante. E siccome il nomen iuris (Wow!) era quello sbagliato, non abbiamo potuto approntare misure cautelari adeguate. Ma si può?
D’altra parte, una donna madre di un bambino che, dopo aver denunciato il convivente più volte, sembra tornare sui suoi passi, ma come avrebbe mai potuto far pensare che fosse ancora in pericolo, che non fosse risorto l’idillio amoroso, e che quel “minimizzare” non nascondesse paura, intimidazione, confusa disperazione? Noi della Procura come avremmo mai potuto immaginarlo? E che siamo uomini, noi della Procura? Noi marziani siamo. E poi qui c’è la mafia, la trattativa, non dimentichiamolo. Dunque, “carte a posto”. E due.
A Milano, città della “giustizia”, un dentista viene condannato, anche in Appello, a sette anni per violenza carnale (chiamiamola ancora così, che si capisce di che parliamo), avendo abusato di quattro sue pazienti, anche con l’ausilio di mirate narcosi. Condannato a sette anni, viene rimesso in libertà, perché dopo un anno non sono state ancora depositate le motivazioni della sentenza, e la custodia cautelare è scaduta. Un anno, per un provvedimento per cui sono previsti al massimo novanta giorni. Il Capolavoro è che se la condanna in Cassazione risultasse confermata, avremmo avuto un bel tomo rimesso in libertà per negligenza del giudice relatore, incaricato di motivare la condanna. E se, invece, risultasse innocente, avremmo avuto un innocente che avrebbe dovuto attendere un anno di troppo per vedersi riconosciuti i suoi meriti.
Due note. La prima. Non è prevista alcuna conseguenza processuale per il giudice che non rispetti il termine massimo di novanta giorni; se invece uno qualsiasi di voi, tramite il suo difensore, sfora anche di un minuto un certo termine, incorre in una decadenza e, a seconda dello stato del processo, le conseguenze possono essere decisive. In ogni caso, avete qualcuno con cui prendervela. La seconda. Il giudice, così dinoccolato con il dentista, è lo stesso che ha motivato su due piedi, cioè mediante lettura in udienza, la condanna in appello per i diritti Mediaset.
E a Roma? No, no, a Roma non c’è problema. Si sa, a Roma sono efficientissimi.