Presentazione a palazzo Giustiniani, nella cornice istituzionale del Senato, martedì scorso, dell’annuario di politica estera curato dai due nostri maggiori istituti di settore: Iai di Roma e Ispi di Milano (nel video, l'intervento dell'ex premier Mario Monti). Dai relatori, un quadro condivisibile della situazione e scarse indicazioni rispetto alla cura di problemi che, come vedremo, non presentano appigli di soluzione.
La prima considerazione riguarda il fatto che, nel dopoguerra, l’Italia si è mossa su tre stabili pilastri di politica estera: integrazione europea, alleanza atlantica, Nazioni Unite. La fine del sistema bipolare ha scaraventato l’Italia in acque sconosciute, nelle quali stenta a navigare, ignorando probabilmente dove puntare la rotta: non si dimentichi che negli scorsi anni, causa l’evoluzione del modello politico interno, da noi è stato messo in forse persino l’impegno europeo.
Come in ogni sistema internazionale, anche in questo del dopo guerra fredda e della globalizzazione, la questione chiave riguarda quale tipo di ordine fornire in vista del mantenimento della pace. E’ certo che le vecchie gerarchie sono saltate, non solo per il ridimensionamento della Russia non più sovietica, ma per lo smottamento del potere statunitense contestuale al sorgere di candidati al rango di potenza come Cina Brasile Sud Africa. Al declino relativo statunitense va aggiunto il declino assoluto europeo, soprattutto in termini demografici e di finanza pubblica, con la regressione del progetto federativo del vecchio continente nei ranghi della cooperazione intergovernativa. Non è un bel vedere perché, insieme allo sconquasso gerarchico, si registrano anche le amputazioni nelle quali sono incorsi i fenomeni multilaterali, Nazioni Unite incluse. Di fronte all’accumularsi delle crisi irrisolte, viene da dire che il crisis management efficacemente proposto negli anni di guerra fredda stia sempre più cedendo il campo al preoccupante fenomeno del crisis of the management.
Guardando al 2012, oggetto dell’indagine dell’annuario, è intanto da dire che, impaniata nelle ricorrenti cadute del quadro politico interno, l’Italia non si è mostrata in grado di fornire contributi significativi all’edificazione del nuovo sistema internazionale, nonostante il credito personale goduto dall’allora presidente del Consiglio Monti. Una delle rare eccezioni si ritrova nel lancio dello “scudo antispread”, per ottenere il quale Monti minacciò il veto al Consiglio europeo. Un po’ poco per un paese con ambizioni e appetiti, che insiste a schierare Forze armate nei teatri di crisi, dalla grande tradizione diplomatica da difendere, in particolare nel Mediterraneo. Se durerà, Letta saprà certamente sanare durante il presente anno, il vuoto di azione internazionale dal quale ha preso le mosse il suo governo.
Insieme ai partner europei, bisogna imporre la pace in Siria, intervenire chirurgicamente nelle crisi africane, esercitare soft power verso i paesi arabi martoriati da divisioni etnico-religiose e massacri, rassicurare l’assertiva Cina perché sani le proprie contraddizioni ed entri come merita nel gioco della diplomazia internazionale responsabile. L’Italia ha in particolare, tra le sue carte di soft power, quella tradizionale della diaspora italiana, e quella occasionale della Esposizione Universale di Milano del 2015, dedicata all’alimentazione. Visto che la globalizzazione ci ha penalizzato in termini politici e finanziari, venga lo sforzo di cogliere questi due aspetti globali per contribuire al rilancio del nostro ruolo nel sistema internazionale. Con noi ne guadagnerà l’Europa, che ha sofferto molto più di quanto appaia la nostra introversione in momenti cruciali come quelli dei trattati di Nizza, Amsterdam e Lisbona.
Questo articolo viene pubblicato anche su America Oggi
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