La Professoressa Fuduli Sorrentino ha il grosso merito di aver aperto sulla “Voce di New York” un vivace dibattito sulla lingua italiana e sull’insegnamento dell’italiano in America. Sull’insegnamento dell’italiano negli Stati Uniti non ce la sentiamo di esprimerci: quello non è “il nostro terreno di gioco”. Non lo conosciamo. Possiamo però dire una o due cose sull’italiano che da sempre (ce lo ricorda proprio la signora Fuduli Sorrentino) viene considerato una lingua neo-latina. Sarà anche una lingua neo-latina, ma quanto s’è allontanato dall’idioma di Cesare, Tito Livio, Virgilio. Ne ha perfino rinnegato le declinazioni… Magari ora spunterà qualcuno che ci dirà: “Ma il volgo della Roma Antica non ricorreva alle declinazioni”! Non sappiamo. Non c’è modo materiale di accertare se il “popolino” romano (e romanizzato) usava o non usava le declinazioni. Andando a naso, secondo noi le impiegava: non avrebbe potuto farne a meno. L’accusativo “rosam” era “rosam” sia per Augusto che per il traghettatore del biondo Tevere. E’ lecito, plausibile pensarla così.
L’italiano… Si dice italiano e si pensa a Dante, Petrarca, Macchiavelli, Manzoni; a Croce e Gentile, a Pirandello e Montanelli. Ma l’italiano non ha l’incisività, l’agilità, l’asciuttezza del Latino. Le ha perse per strada queste qualità, e forse le ha perse proprio nella sua “marcia d’allontanamento” dal Latino. Ci si è messo poi di mezzo il Seicento, il Seicento ampollosa espressione di ridondanza, sterile esempio di manierismo, fredda fabbrica di retorica, malsana fucina di bolsaggine. Come se questo non bastasse (tenetevi forte…!), arrivò poi lui, il milanese sempre assorto, sempre così riflessivo; il macerato! Alessandro Manzoni… Il quale soleva ripetere che per dar luogo alla stesura definitiva de “I Promessi Sposi”, volle andare “a sciacquare i panni in Arno”. I panni in Arno li sciacquò, eccome, ma non scrisse mai come poteva scrivere un fiorentino, un pistoiese, un senese. O come scrivevano due meridionali nati parecchio tempo prima di lui: Giambattista Vico e il figlio Gennaro.
Manzoni legittima il timbro enfatico che ci portiamo ancora dietro… Si prenda l’”attacco” de “I Promessi Sposi”: “Quel ramo del lago di Como”… “Quel” ramo… Oddio! E’, sì, enfatico. E’ retorico. E’ lezioso. Meglio avrebbe fatto a scrivere: “C’è un ramo nel lago di Como”… “C’è”: due lettere semplici, semplicissime. Asciutte!
La lingua italiana… Nel corso dei secoli s’è appesantita, s’è caricata di orpelli; ha gettato al macero lucentezza ed efficacia latine (a riguardo si legga il “De Bello Gallico”, si legga “Ab Urbe Condita”); ha puntato sul ciarpame incipriato, edulcorato. Vi sono apparsi termini come “mero” (semplice), “scevro” (privo), “precipuo” (principale, primario). Ma non vi fanno ridere aggettivi come questi?? Non ne sentite, sì, la ridondanza, la solennità fasulla?? Prendiamo ora un verbo, il verbo “esigere”. Qual è il suo participio passato? Qual è? Non esiste. Non esiste poiché non si potrebbe mai dire “esigiuto”…! Allora, come la mettiamo?? Ci udisse Achille Starace…!