Ogni giorno TV e giornali ci parlano della crisi, della necessità di tirare la cinghia: ci spiegano che è tempo di vacche magre, sacrifici. Non si escludono nuove stangate, e magari si tratta di provvedimenti inevitabili, non c’è alternativa. Poi ecco notizie che sembrano inventate, talmente appaiono inverosimili, illogiche, assurde. Sono invece vere.
Ospedale di Gerace in Calabria: mai aperto, mai funzionante, letteralmente lasciato andare alla malora con tutto il materiale al suo interno, costato milioni di euro.
Non è il solo caso. In Italia abbondano gli ospedali-fantasma: strutture costruite, collaudate, mai aperte. Sono 132 in sedici regioni, secondo la Commissione parlamentare sul sistema sanitario. E’ da credere che sia uno scandalo con colpevoli, e con persone che da questa situazione ci hanno guadagnato, ci continuano a guadagnare. Però non si ha notizie di inchieste da parte della magistratura, di processi, condanne.
Torniamo all’ospedale di Gerace. I lavori cominciano nel 1987; vengono interrotti a metà degli anni Novanta: all’epoca sono stati già spesi 5 milioni di euro, l’ospedale è praticamente ultimato. Nel 1996, vengono collaudati gli impianti, anche quello fotovoltaico. Sembra fatta: 102 posti letto in più nell’asfittico panorama sanitario della Locride. Ma l’ospedale è chiuso. I macchinari stanno arrugginendosi. Uno sperpero di 5 milioni di euro.
Altro caso: San Bartolomeo in Galdo. E’ forse l’opera incompiuta più vecchia d’Italia. I lavori iniziano nel 1958. Nel 2008 viene affissa una lapide: «Dopo 50 anni di attese, speranze, delusioni e lo sperpero di circa 24 milioni di euro, a memoria e a vergogna della incapacità politica e amministrativa dei loro rappresentanti, i cittadini posero». Quattro piani per 133 posti letto previsti, 12 mila metri quadrati attrezzati con sale di degenza complete di ossigeno e bagni funzionanti. Nelle camere i mobili imballati. Nel 2008 l’ospedale viene cancellato dal piano sanitario nazionale, rimane solo un Pronto soccorso attivo per urgenze territoriali. Nel frattempo però i lavori, e lo sperpero di denaro, continuano. Naturalmente c’è anche un grande parcheggio su due piani, con sbarre elettroniche e strisce disegnate. Vuoto come tutto il resto.
Andiamo ad Amalfi: l’ospedale è un monumento all’Italia dello spreco. Basta dire che la rampa di accesso al pronto soccorso è così stretta che le ambulanze non ci possono passare. Quattro piani di stanze in parte completate in parte abbandonate, cucine, sale operatorie, tutto nel più totale degrado. La struttura risale al 1952 e ha subito tanti lavori di ristrutturazione, l’ultima nel 1992, ma non è mai stata aperta. Però sono stati assunti, con regolare concorso, sotto la gestione del ministro Francesco De Lorenzo, ben otto primari stipendiati regolarmente per non fare nulla per mesi; poi li hanno dirottati altrove. Diecimila metri quadrati buttati, un vero «monumento all’Ospedale ignoto».
I lavori del «nuovo» ospedale di Lentini sono cominciati nel 1995. Restano da completare le sale operatorie. E poi bisogna arredare e attrezzare tutta la struttura. Gare d’appalto che hanno avuto una storia infinita: sospese per 18 mesi dopo un ricorso al Tar. Sono passati oltre dieci anni, durante i quali nessun paziente è entrato in corsia. O meglio: i soli che lo hanno fatto erano attori. Perché l’unico utilizzo l’ospedale di Lentini l’ha avuto come set cinematografico. Ci hanno girato «Le ultime 56 ore», con Raoul Bova, un film sui militari italiani morti per l’uranio impoverito. Il mastodontico edificio sulla collina era l’ospedale in cui venivano ricoverati i soldati.
A Rosario, il primo finanziamento lo dà 43 anni fa l’ormai defunta Cassa per il Mezzogiorno: 346 milioni di lire. Nel 1967 il cantiere viene inaugurato in pompa magna. Doveva diventare un gioiello della sanità calabrese, l’ospedale di Rosarno. Peccato che per tirarlo su ci siano voluti 24 anni. Altri 19 invece sono serviti a ridurlo nello stato attuale: un letamaio. Letteralmente. Dove si dovevano curare i malati, pascolano e trovano rifugio pecore e cavalli.
Poi dici che uno s’incazza.