Le cronache politiche dei primi mesi del 1999 inanellano fatti che si riveleranno determinanti per il futuro dell’euro e dell’Europa. Il primo gennaio entra in vigore l’euro. Il primo marzo è il turno della libera circolazione dei prodotti finanziari in 102 paesi, grazie all’accordo firmato al Wto, Organizzazione mondiale del commercio, il 27 dicembre 1997.
Il 5 marzo, il parlamento cinese emenda la costituzione, inserendo nel preambolo il riferimento alle “teorie di Deng Xiao-Ping” e nel testo espressioni che mutano la natura dello stato. Le attività economiche private cessano di essere “complementari all’economia pubblica” e diventano “componente importante dell’economia”; il sistema di ripartizione della ricchezza rimane “proporzionato al lavoro fornito”, ma prevede “altri fattori” come la retribuzione del capitale. Il 15 marzo si dimettono i 19 membri della Commissione europea, ufficialmente per la censura dei cinque saggi e del Parlamento europeo, in realtà per l’incapacità di sottrarsi al conflitto istituzionale che sul caso è scoppiato tra la spendacciona bad lady, commissario Edith Cresson, coperta dalla Francia, e gli stati membri. La sfida dell’euro parte nel momento di massima debolezza e conflittualità interna a Bruxelles, e mentre le istituzioni faticano a digerire l’”obbligo” ad integrare i paesi di nuova democrazia del centro-est Europa, rinunciando a costruire l’Ue più politica prefigurata da Jacques Delors. Mentre l’Europa s’infila nel tunnel delle sue incertezze, la finanza affila i coltelli della speculazione globale e la Cina lancia il guanto pesante della sfida commerciale.
L’Ue fa due errori: si dà una moneta comune ambiziosa senza darsi il governo comune dell’economia, accetta che apertura dei mercati finanziari e ingresso del competitor cinese avvengano senza regole che garantiscano fairness al nuovo gioco finanziario e commerciale.
L’Europa sta pagando oggi e pagherà ancora quegli errori. Il filosofo-sociologo Jurgen Habermas ha detto nel 2005, in un’intervista al polacco Adam Krzeminski in Die Welt, che l’Europa deve parlare con una voce sola e considerarsi parte della stessa comunità, per “confrontarsi con il liberalismo egemone”.
L’intellettuale liberale aggiungeva: “Se noi non controlliamo il capitalismo, si aprirà la strada a una modernizzazione svuotante”. Gli europei non hanno capito (o non hanno voluto accettare, ma fa lo stesso) le implicazioni politiche e di politica economica dell’euro: con il varo della moneta unica dichiaravano di tornare attori autonomi della competizione internazionale, sfidando Usa e nuove economie del Pacifico.
Nella competizione si vince o si perde. Per gli europei perdere la sfida significherebbe retrocedere non solo le posizioni economiche, ma quelle politiche e culturali che riguardano direttamente lo stile di vita.
L’eventuale inabissamento dell’euro comporterebbe la sconfitta non solo e non tanto del progetto di federazione, quanto del modello di economia sociale di mercato sul quale quel progetto è fondato. Non sarebbe un mondo migliore quello che nella contesa globale vedesse come attori soltanto il capitalismo sregolato anglo-americano e il capitalismo dispotico cinese.
La posta in gioco, incompresa agli europei, fu chiara oltreatlantico negli anni del parto dell’euro. Scrisse Martin Feldstein nel numero autunnale 1997 di Foreign Affairs, sotto il significativo titolo “European Monetary Union and International Conflict”: “If Emu does come into existence… it will change the political character of Europe in ways that could lead to conflicts in Europe and confrontation with the United States.”