Mi piacerebbe sapere quanto sia costato alle tasche del contribuente romano, quindi anche alle mie, lo sfizio del sindaco di cambiare i logo dei servizi cittadini con l’orgoglioso lemma “Roma capitale”. L’evidenza dello spreco è nell’impatto visivo dell’utenza con le fiancate riverniciate delle auto dei vigili urbani, pardon, di “Polizia Roma capitale”, che nel frattempo hanno avuto esponenti indiziati per mazzette e favori. Per i romani i vigili restano “pizzardoni” qualunque sia il nome che gli si affibbi per decreto, così come per i milanesi saranno sempre “ghisa” anche se,puta caso, i bossiani prendessero il potere e li ribattezzassero, che so, “Guardia Milano capitale del nord”. Brutta bestia la demagogia in politica. Un nome non rende Roma capitale di uno stato federale che non c’è (ancora): Roma non ha e non può per ora avere lo statuto di una Berlino o di una Washington D.C. Meriterebbe più rispetto e gratitudine (e soldi) dal paese, per il lavoro che svolge al suo servizio, ma questa è un’altra faccenda. E comunque, sbaglio o la città fu designata capitale il 27 marzo 1861, dalla Camera dell’allora regno d’Italia, presente Cavour?
Uno dei nostri problemi è che, contrariamente a quello che si racconta su sussidiarietà (la governance si collochi il più vicino possibile al cittadino salvo il poco ed essenziale che spetta ai livelli superiori) e controllo degli elettori sugli eletti, ai piani bassi della piramide burocratica si incontra corruzione e malaffare come ai piani alti, ma minori competenze ed efficienze.
Il che si spiega anche: da quando mondo è mondo tendenzialmente i migliori stanno al timone centrale. Roma città non fa eccezione, anzi rischia di porsi come caso di scuola per le incompetenze che a ripetizione manifestano suoi uomini di spicco. Non è ancora chiusa la vertenza spazzatura, che torna quella dell’azienda di trasporti pubblici, Atac, pachiderma di immobilità predisposto alla mobilità dei milioni di persone che si affidano al servizio pubblico per circolare in città e dintorni.
A maggio Atac ha aumentato del 50% il costo del biglietto e anche di più gli abbonamenti di studenti e anziani, senza neppure azzardare la storiella del miglioramento del servizio, che anzi è peggiorato. Si ha la sensazione che si sia disposta la contestuale diminuzione di mezzi e corse. La settimana scorsa, dopo sette anni di lavori, ha aperto la diramazione B1 della metro. Dal primo giorno si susseguono guasti e interruzioni, attese lunghissime alle fermate. Il personale, incapace di assistenza, ha rallentato le prestazioni e venerdì ha scioperato. Il management litiga con il sindaco sul modello organizzativo. Il sindaco, dopo l’intervento di polizia e carabinieri nelle stazioni, corre nella metro e dichiara il suo sdegno per la situazione (e sinora dove stava?). Atac è problema da sempre. Troppa politica al vertice (lo strapagato management è selezionato dai partiti al potere), troppo sindacato in basso (si garantiscono anche mascalzoni e nullafacenti). La politica spiega episodi come quello della fermata della centrale via del Plebiscito di fronte a palazzo Grazioli, magione romana di Silvio Berlusconi.
L’allora primo ministro la rimosse quando si seppe che dal portone del palazzo transitavano, scortate dalla polizia, prezzolate damigelle di piacere: “Occhio non vede cuor non duole”, deve aver pensato il nostro. E’ stata ripristinata ben sei mesi dopo il cambio di governo, grazie a sottoscrizioni. Il potere sindacale spiega perché un paio di dipendenti presidi tutti i giorni 40 metri di via Piave riservata ai mezzi pubblici: parlano, fumano, s’annoiano. A fine mese passano alla cassa. Chissà cosa raccontano a casa, la sera, sulla faticosa giornata di lavoro.