A conoscere la casa dei coniugi Roosevelt, Eleanor e Franklin Delano, mi portò John Cappelli, che visitai a Poughkeepsie a Pasqua di quattro anni fa, un anno prima della sua scomparsa.
Mi aveva invitato durante un convegno sul sindacalismo americano e italiano, al quale, nonostante fosse già malandato, era voluto intervenire, al braccio della moglie Ines e di Stefano Vaccara.
Come da istruzioni, presi il treno a Manhattan e risalii l’Hudson, con gli occhi appiccicati allo splendido scenario della Hudson River Valley: John mi aveva anticipato quell’incanto di natura insieme selvaggia e antropizzata, con gli scoppiettii verbali tipici del suo modo di descrivere le cose della vita. Ci portarono, ero con mia figlia Karin, ad Hyde Park in una bella giornata di sole. John e Ines sembravano due vecchi ragazzini, e sciorinavano inni d’amore al presidente più popolare che abbia avuto l’America. Ne sapevano più di un’enciclopedia e ci insegnarono molto, a cominciare da come pronunciare il cognome di FDR senza storpiarlo, rispettandone le origini fiamminghe Mi contagiarono con il loro entusiasmo, ma usciti dal luogo che FDR ha glorificato con le parole "All that is within me cries out to go back to my home on the Hudson River", provocai John dichiarando che il “suo” presidente, a giudicare da come era tenuta l’estate di Springwood, scandalosamente malandata e in certi punti cadente, non era più nel cuore degli americani. Finimmo in politica, come accadeva quando si discorreva con John, inveterato paladino degli umili del mondo, commentando che il tempo del deal sociale era stato affossato, e che la gente, non solo in America, si era lasciata convincere alla sbornia del liberismo selvaggio e della speculazione. Eravamo nel pieno della crisi dei subprime con l’America e l’Asia di Sud Est che venivano giù. Washington non aveva ancora varato il Tarp, Troubled asset relief program, il provvedimento che avrebbe rimesso lo stato al centro degli assetti finanziari e del mercato, come regolatore e domatore degli animal spirits del capitalismo. John, inguaribile credente nel futuro, vedeva le condizioni per il cambio di rotta. Io, ribadendo quanto avevo appena detto alla radio di America Oggi, mostravo scetticismo, ritenendo che lo stato si sarebbe limitato a immettere liquidità per ripianare i debiti degli intermediari di mercato, senza intervenire nelle regole di un gioco che si sarebbe presto ripetuto, a danno di investitori, risparmiatori, mondo del lavoro. Concordavamo sul fatto che solo un nuovo New deal, stavolta globale visti gli assetti dell’economia contemporanea, avrebbe potuto cambiare la struttura di un sistema economico votato a sconquassi ciclici.
Da allora la crisi finanziaria americana ha infettato altre aree, in particolare l’Europa, ma di quel patto non vi è ombra, nonostante alla Casa Bianca sieda un presidente dal quale in molti hanno atteso il new deal. Quando Roosevelt propose al suo paese un patto di alleanza che razzisti e reazionari bollarono come visionario, rispose: “When there is no vision, the people perish”. La sua era la visione di una società più giusta, dove non mancasse il lavoro, e dove lo stato si ergesse come arbitro fair nell’ineliminabile conflitto tra capitale speculativo e impresa, tra capitale e lavoro, rendendosi imprenditore e creatore di occupazione. Oggi avrebbe qualche difficoltà, Franklin D., nel praticare quel modello, perché il capitale è sempre meno legato alla produzione e sempre più speculativo, più volatile e quindi meno controllabile dall’autorità degli stati, peraltro limitata anch’essa dal potere finanziario. Chi chiede il nuovo patto viene spesso intimidito o represso, come è capitato in America agli anti Wall Street. FDR consiglierebbe di insistere: “L’unica cosa di cui avere paura è la paura medesima” amava dire.